Un dio contro la delusione

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Il Manifesto, 10 ottobre 1986

di Marco Vannini

E se il religioso fosse oggi solo il frutto della delusione verso il «mondo»? Il ritorno del religioso non può cancellare l'illuminismo, la storia, la scienza.

Innanzitutto credo che si debbano avanzare molte riserve sulla entità della ripresa del fenomeno religioso, che non so fino a che punto sia reale, e non limitata ad aspetti esteriori, senza incidenza in quel cammino di conversione, itinerario concreto di vita e di intelligenza, in cui consiste un autentico fatto religioso. Fatte queste riserve, mi pare che il fenomeno in questione abbia una doppia valenza: una, positiva, di conversione alla interiorità, alla riflessione, per un forte senso di rifiuto nei confronti della esteriorità, di una cultura mero oggetto di consumo; un'altra, negativa, di surrogato psicologico, frutto di delusione e di scoraggiamento nei confronti del «mondo».

Dirò subito che questo secondo caso mi pare sconfortante sia per il «mondo», sia per la fede stessa, perché quanto non proviene da pienezza e ricchezza di vita e di intelligenza, da amore e da gioia, non ha alcun valore creativo. Temo qui l'irrazionalismo, la caduta nello psicologico — vorrei -Sottolineare la opposizione paolina psiche-pneu ma —, per il quale ogni «fede» diviene valida, ogni riferimento al «soprannaturale» sufficiente, Cristo e Krishna identici, o con gli stessi resultati. Per rimanere all'interno del cristianesimo, temo, più specificamente, il biblicismo — non nel senso dello studio e del rispetto per un grande testo sapienziale — in quanto acritico reperimento di teologie e «sensi della storia», in un mare magnum in cui si può trovare tinto e il contrario di tutto e, quel che è peggio, fonte primaria di religione come superstizione, creazione di un sovramondo fittizio, il cui senso vero — in ultima analisi — è quello di servire a bisogni presenti.

Ora, proprio ponendosi dalla parte della fede, bisogna combattere come vergognosa e blasfema l'idea del Dio che serve, perché essa è la vera idolatria, la vera menzogna e la vera alienazione. Perciò sono oggi inservibili le varie teologie, costruite nella utilizzazione, nella appropriazione e nella artificiosità. Ciò che sgomenta in questo ritorno, è proprio il suo essere «ritorno», ovvero la tendenza a cancellare l'illuminismo, a far finta che non esista una filologia biblica (non si dimentichi la crassa ignoranza di base di «cattolici» e «laici»); la tendenza a dimenticare la ragione e la scienza; il buttare via i lati positivi di questi ultimi decenni, almeno in Italia: gli spazi di libertà e di autonomia, la capacità adulta di fare i conti con la storia e con la scienza, la comprensione che ha senso, ha valore, solo ciò che proviene dal profondo del singolo, e non il preconfezionato e il precotto.

Proprio dal punto di vista della fede cristiana, non c'è molto da rallegrarsi per la rinascita di forme di cultura e di vita «religiosa», se questo vuol dire qualcosa di estraneo alla veritas -Certo, religione vuoi dire tante cose, e anche cristianesimo vuol dire tante cose, ma non si deve dimenticare che il senso forte, quello che solo conta, del cristianesimo è il paolino «avere mente e cuore di Cristo» — l'esperienza di Cristo della non alterità di Dio nello spirito. Ciò è impossibile finché ci si muove nel dominio dello psicologico, nel campo della forza — li appare bestemmia il togliere l'alterità di Dio e «religione» il porlo come altro. Ma non si tratta della forza: si tratta della giustizia: è nell'ordine della giustizia che l'uomo scopre la conformità a Cristo e la non alterità di Dio — l'uomo giusto e la giustizia, come dice Eckhart, sono la stessa cosa, che è poi Dio stesso. La giustizia non è possibile nello psicologico, nel regno della forza, ma nello spirituale, che inizia dove scompare l'io psicologico — i suoi bisogni, le sue attese, i suoi legami.

Ho perciò molto sospetto per le rinascite «sociali» della religione per i gruppi, le assemblee, i progetti politici e le strategie religiose, i «sensi della storia» e tutte le altre chiacchiere senza senso, che vanno e vengono, che oggi ci sono e domani no —: il sociale è sempre la tentazione diabolica, la tentazione della forza. Guardo invece con simpatia e con una certa commozione a quell'avvicinamento alla fede che proviene dall'amore per la giustizia, che il sociale, il politico, l'ideologico, non hanno soddisfatto perché non potevano soddisfare, e che proviene dunque non da sbandamento e stanchezza, ma da approfondimento e maturazione, da una esperienza che è, sempre, anche esperienza di errori.

Parallelamente, a livello più specificamente culturale, credo che ci sia oggi una utilizzazione di testi e tematiche teologiche e religiose altrettanto superficiale — e quindi altrettanto passeggera e insignificante — quanto quella che era stata, nel passato, di autori e tematiche volta a volta diverse; ma, accanto ad essa, una vera e propria riscoperta di alcuni grandi classici del pensiero, troppo a lungo dimenticati. E credo che uno dei grossi compiti, oggi, della cultura e della riflessione, sia proprio quello di confrontare questi grandi testi e pensatori religiosi, antichi e fondamentali — da Paolo ad Agostino, per dire solo due nomi con gli autori ineludibili del nostro tempo postilluminista, «atei» o no — Hegel e Nietzsche in primo luogo. La fede cristiana è, in fondo, la fede nel Logos, nella quale Dio è pensato come spirito — non come essere, ma come ragione, secondo le parole di Eckhart — e come spirito è esperito. In fondo, il lavoro dell'intellettuale consiste soltanto, come scrive Kierkegaard, nell'aspettare: aspettare che le mode passino, tenendosi saldo in quella fede, il cui senso originario e primario è proprio quello di fedeltà.