Simone Weil: La rivelazione indiana
Simone Weil: La rivelazione indiana, a cura di Sabina Moser e Marco Vannini, Le Lettere, pag. 214, euro 18,00. ISBN 9788893661140
Persuasa che la rivelazione divina non sia esclusiva di un popolo e di un tempo, Simone dedicò gli ultimi anni della sua breve vita (1909-1943) a un’indagine nelle tradizioni religiose di tutto il mondo, alla ricerca di cosa unisce nella verità le diverse rivelazioni. Particolare rilievo in questa indagine lo ebbero le grandi filosofie e religioni dell’India: l’induismo, esaminato nei suoi principali testi – le Upanishad e la Bhagavad-Gıta – per le quali Simone studiò intensamente il sanscrito; il buddhismo, soprattutto nella sua forma Zen, e, di riflesso, anche il taoismō cinese.
Nella “rivelazione indiana” Simone trovò quegli elementi essenziali che non aveva trovato in quella biblico-cristiana: il distacco dall’ego, con la conseguente identificazione con l’Uno-Tutto; il concetto impersonale e, insieme, personale di Dio, una cosa sola con l’anima. Sul piano morale, trovò la risposta al problema dell’azione e della forza, tanto più scottante durante la guerra: come Krishna insegna ad Arjuna, l’azione è buona se compiuta senza guardare ai frutti, “senza perché”, come dicono i mistici cristiani. Simone si convinse infatti che la verità delle religioni non sta nelle rappresentazioni teologiche, ma nella mistica. Le mistiche – scrisse – si rassomigliano tutte, fin quasi all’identità. Cogliere questa identità, ma anche il rilievo di quel “quasi”, fu l’impegno che assolse fino alla morte.
Upanishad: Dio non è ciò che è manifestato dalla parola, ma ciò grazie a cui la parola è manifestata. È ciò grazie a cui tutto è manifestato, e che non è manifestato da nulla.
L’estinzione del desiderio (buddhismo) – o il distacco – o l’amor fati – o il desiderio del bene assoluto – è sempre la stessa cosa: svuotare il desiderio del suo contenuto, la finalità da ogni contenuto.