Sulla grazia

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Sulla grazia

Sulla grazia , Le Lettere, Firenze 2008.

Non abbiamo aggiunto note o indicato citazioni a questi pensieri, che sono comunque debitori a molti autori, antichi e moderni — anzi, come dice uno dei più importanti di essi (Hegel), qui non vuole esserci niente di personale: quello che eventualmente c'è di personale, è falso.

Sotto un primo ed essenziale profilo, questi pensieri si muovono infatti nell'ambito dell'evangelo, il lieto messaggio dell'abnegare semet ipsum (Mt 16, 24; Lc 9, 23) ossia negare l'egoità, che si esprime attraverso il volere. Odiare se stesso, odiare la propria anima (Gv 12, 25) in quanto egoità autoaffermativa, e a Dio la volontà, scoprire con estatica letizia la presenza del divino qui ed ora, in noi stessi; Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10, 30), Chi vede me vede il Padre (Gv 14, 9).

Incapaci di comprenderlo, i "fedeli" hanno fatto di Gesù un essere mitologico, il Figlio di Dio disceso dal cielo per un fine speciale, ecc., che sarebbe presunzione voler uguagliare e di cui si tratta invece di servirsi come redentore, come salvatore.

La radice autoaffermativa del volere è capace infatti soltanto di un pensiero dualistico, opponendo o comunque distinguendo umano e divino, naturale e sovrannaturale. La religione crea così un mondo altro, diverso, superiore a quello terreno. È, anche etimologicamente, super-stizione, che condanna la presenza del divino nel mondo e nell'uomo con la sciocca accusa di panteismo (per la quale sarebbe panteista anche san Paolo, che afferma essere Dio "tutto in tutti"). Si accusa di panteismo solo per mantenere la divisione, ovvero un pensiero che distingue, un pensiero del male, cioè quel non-pensiero che serve all'appropriazione — in questo caso del divino, del "soprannaturale".

Sotto un secondo ma non meno rilevante profilo, questi pensieri si muovono nell'ambito della filosofia, "scienza della verità", come la chiama Aristotele, frutto dell'amore della verità, del sapere — come la parola stessa dice.

Amore di verità vuol dire innanzitutto riconoscimento della menzogna che accompagna sempre il nostro pensare, a servizio del nostro volere. Questo è ciò che la filosofia comprende fin dai suoi inizi, fin da quando Eraclito contrappone il Lògos, la ragione universale, al pensiero privato, che è a servizio dei sensi. E il Lògos è uno solo, umano e divino insieme: esso dà l'universale, e non il particolare.

La ricerca della verità, del Bene, consiste infatti nel distacco, nell'esercitarsi a morire", come insegna Platone, e perciò il messaggio evangelico si incontra con l'essenza stessa del filosofare — anzi, è tutt'uno con essa.

La filosofia prosegue nella mistica, che infatti, se è filosofia e non mistificazione (tipo cabbala), non è altro che l'esperienza del distacco, e, con esso, della grazia. Perciò essa sola continua a parlare di "morte dell'anima" e di spirito quell'altro genere di anima", quell'intelletto che "giunge all'uomo dall'esterno", "unico, indipendente dalle cose", e che "esso solo, è quel che veramente è, immortale ed eterno", come già insegnava Aristotele.

Ciò è del tutto manifesto in Plotino, cui tanto sono debitori i cristiani, da Agostino a san Giovanni della Croce. Peraltro nel dottor gratiae per eccellenza, qui continuamente evocato, è già evidente la con‑

tradizione tra l'esperienza di grazia, che è universalità e libertà, e l'appartenenza a un'istituzione comunque chiusa — sociale, politica, religiosa.

Chàris kai alètheia, grazia e verità, sono infatti opposte al nòmos, alla Legge: così si esprime fin dall'inizio il vangelo di Giovanni (1,17), che termina parlando dello spirito, che conduce gli "amici" di Cristo a "tutta la verità" (16, 13), ovvero alla vita di grazia.

Di questa vita — ovvero della nascita di Dio nell'anima, come egli preferisce dire — abbiamo la più compiuta descrizione in Meister Eckhart. Alle sue opere, e a quelle dei suoi discepoli e seguaci, i pensieri qui presentati sono massimamente debitori.

Ai nostri giorni la religione sembra consistere tutta nelle Scritture — il "papa di carta", come le chiama Sebastian Franck con il loro odio per il pensiero libero, per la filosofia, e perciò di grazia non si parla

più. Già Hegel notava come i teologi non parlassero più di spirito, di grazia, e non trattassero altro che di Bibbia, alla stregua di ragionieri che tengono l'amministrazione di beni altrui.

Ma le Scritture appaiono all'intelligenza onesta per quello che sono, povere opere di uomini, e perciò la religione che si fonda su di esse non può essere altro che superstizione, che perde il confronto con la ragione e con la scienza. Fin qui poco male — anzi, bene, perché non ci si può che rallegrare della vittoria della verità —, se non fosse però che l'uomo, insieme al Dio della religione, perde anche il Dio della fede, ovvero insieme alla fede come credenza perde anche la fede come fiducia nell'Assoluto e movimento verso di esso, e così perde la ragione stessa. In questo modo cade tutto nel dominio della pesanteur weiliana, in cui non c'è più spirito, non c'è più grazia, ma solo corpo, forza — e non c'è più nemmeno anima, ma solo psiche, con la sua filopsychìa, l'amore di sé, e il dolore che lo segue sempre come un ombra.

Il senso ultimo di questi pensieri è perciò il tentativo di descrivere, per quanto possibile, la fenomenonogia della grazia, almeno nel suo aspetto essenziale, ovvero in quanto la vita di grazia, indicata dall'evangelo, coincide con filosofia, che è, platonicamente, la via che conduce al divino.

Sappiamo bene, peraltro, che la parola scritta non può molto in ciò, e che occorrerebbe la testimonianza — o almeno la parola parlata — mentre questo è soltanto un piccolo libro.