Il paradosso del quietismo

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Dalla parola “quiete” e, più specificatamente, dal sintagma “orazione di quiete”, derivò il sostantivo “quietismo”, che indica una vicenda importantissima nella storia della Chiesa e della cultura europea.

Rimandando in proposito agli studi specifici[1], ci imitiamo a rilevare che dal significato positivo inerente alla parola “quiete”, è stato derivato il significato prevalentemente negativo di “quietismo”. Si potrebbe dire che questo paradosso vada al cuore stesso della spiritualità cristiana, ben oltre la vicenda particolare, storica, del XVII secolo, e ci proponiamo qui di indicare, in breve, questo paradosso, visto alla sua origine, che è la Regola di perfezione di Benedetto da Canfield.

Che la quiete, la pace interiore, sia un valore assolutamente fondante nel vangelo, è evidente: essa è quasi il contrassegno dell’esperienza cristiana[2], e in questo senso si è espressa la tradizione spirituale di sempre, tanto in Oriente quanto in Occidente. Per trovare le origini della controversia quietista occorre però rifarsi soprattutto a quella mistica medievale di cui si erano nutriti gli autori del XVI e XVII secolo.

La perfetta pace è segno della presenza di Dio; Eckhart conclude così le sue Istruzioni spirituali:

«Tu sei in Dio in proporzione al tuo essere in pace e non sei in Dio in proporzione al tuo non essere in pace […] Tanto in Dio, tanto in pace»[3].

La pace è data dall’annichilimento dell’egoità, predicata dal Vangelo[4], e, come si esprimeva il sermone 52, Beati pauperes spiritu di Meister Eckhart, documento più chiaro e forte di quello che potremmo chiamare, ante litteram, quietismo, ciò richiede una totale povertà: nulla volere, nulla avere, nulla essere, nulla sapere[5]. Allora niente, assolutamente niente, turba la perfetta quiete dell’uomo così annichilito.

Il punto da tener presente è che questi “nulla” sono correlati e per così dire sostenuti dall’ultimo della serie, nulla sapere, ovvero l’aver sgombrato la mente e l’animo da ogni contenuto, anche da ogni contenuto “religioso”. È evidente che tutto ciò può sembrare negazione dei contenuti essenziali della fede cristiana, e infatti già nel XIV secolo furono condannati i libri e gli autori che sembravano portare a questo esito: basti ricordare Margherita Porete ed Eckhart stesso.

Tralasciamo qui di indicare i testi, talvolta adespoti, che dal Trecento proseguono questa tradizione mistica fino al XVII secolo[6], e veniamo direttamente alla Regola di perfezione, il capolavoro che formò tutta la mistica del Seicento, servendo da manuale per due o tre generazioni di spirituali.

L’autore, definito da Henri Brémond «il maestro dei maestri»[7], è l’inglese William Fitch, nato a Canfield, nell’ Essex, nel 1562, che prese il nome di Benedetto quando, convertitosi al cattolicesimo, passò nel continente e vestì a Parigi l’abito dei Cappuccini. Tornato in Inghilterra per svolgervi apostolato, fu riconosciuto e imprigionato; liberato dopo tre anni per intervento del re di Francia, rientrò nel convento parigino, ove morì, in odore di santità, nel 1611. Poco prima della fine, aveva curato l’edizione completa ed esatta, francese e latina, della sua Règle de perfection, le cui prime versioni, incomplete, circolavano già da diversi anni[8].

Il libro propone come unica regola di perfezione cristiana l’obbedienza alla volontà di Dio, che implica il completo annichilimento della volontà personale, in un totale distacco. In esso si riconosce che tutto quel che accade è volontà di Dio - identificato, fuori da ogni antropomorfismo, con la sua stessa volontà. Obbedendo alla necessità come volontà di Dio, l’anima sta in ogni istante, in ogni situazione, in completa unione con Dio e quindi in perfetta quiete. Vi sta in quanto assolutamente distaccata, da se stessa e da tutte le cose, morta[9], fattasi nulla : allora «questo infinito vuoto, o nulla, somiglia alla serenità del cielo senza alcuna nuvola, ed è una luce deiforme», come leggiamo in questo bellissimo passo:

«Infatti l’anima non solo trova qui che Dio è in lei, ma anche che in essa non c’è altro che lui; essa ha tanto abitato nell’abisso del suo nulla e lo conosce così bene, che grazie a questo stesso mezzo vede che lo stesso è di tutte le altre cose, che, sembrandole qualcosa, le causavano oscurità. Così questa conoscenza è confermata e praticata dall’amore, che rapisce, liquefa e fonde l’anima in modo tale che, essendo essa tutta rapita, assorbita, inabissata e liquefatta in Dio, ogni altra cosa viene similmente fusa, liquefatta, consumata e annichilita. Da ciò deriva (come si è detto) che l’anima non può vedere altro che Dio, e, in quanto tali cause sono abituali, altrettanto lo è il loro effetto, giacché nell’anima in questo grado tale annichilimento è così perfetto e abituale, che, essendo tutte le cose ridotte a un niente, essa permane nell’orazione, come sospesa in un immenso vuoto, o nulla. Quando v’è perfettamente, non può vedere bene, né comprendere, cosa alcuna, nemmeno se stessa, e questo infinito vuoto, o nulla, somiglia alla serenità del cielo senza alcuna nuvola, ed è una luce deiforme»[10].

Anche per la Règle sorse perciò subito l’ accusa di non tenere in conto i dati propriamente cristiani della fede, a cominciare dalla figura di Cristo, che appare superfluo, e superflua la sua Croce. Il libro presenta perciò negli ultimi capitoli quello che è stato chiamato “Trattato della Passione”, per il quale si pone la questione del rapporto col resto dell’opera: non v’è dubbio, infatti, che esso appaia come un corpus per così dire aggiuntivo, estraneo al complesso dell’opera stessa.

Il dubbio è reso lecito anche dal fatto che in questi capitoli la tesi non solo è sostenuta quasi esclusivamente sulla base di continue citazioni della Scrittura e dei Dottori francescani, in primis san Bonaventura, ma anche con una sorta di patriottismo per l’Ordine[11], che contrasta con la dimensione universalistica del resto dell’opera. Sotto questo profilo, si giustifica l’opinione di Jean Orcibal, che ritiene esservi in questa parte, e soprattutto nel capitolo sedicesimo, la presenza di una mano diversa da quella di Benedetto, certamente un suo confratello[12].

A parere di chi scrive, è evidente che questa parte è aggiunta al corpus della Règle, quasi sicuramente per rispondere alle critiche di cui sopra, ma non si pone affatto in contraddizione col contenuto essenziale della stessa. Chi sostiene questo, commette lo stesso errore che è stato commesso per molti altri mistici cristiani, nei quali la risoluta rimozione di tutte le immagini del divino si accompagna alla meditazione e alla devozione a Cristo, alla Vergine, ai Santi.

Pensiamo, ad esempio, a Silesius, il cui capolavoro si apre proprio con versi che spazzano via ogni immagine del divino, muovendo verso «l’increato mare della nuda divinità», anzi, invitando ad andare «oltre Dio»[13], e prosegue però con tantissimi distici dedicati al Cristo (in particolare al Christus patiens, sottolineiamo), alla Vergine e ai Santi. Si può vedere qui una contraddizione solo dall’esterno, in una considerazione astratta e puramente formale, ossia priva di reale esperienza della cosa, perché la contraddizione non c’è affatto. Il riferimento, e pure la devozione, verso queste figure è l’ancoraggio al reale, perché queste figure sono storiche - o comunque come tali venivano pensate – è indicano concretamente l’umanità del divino, ossia che la divinità non è un’astrazione: in quella increata luce noi siamo, come lo erano e lo sono Gesù, la Madonna, i Santi[14].

Non deve stupire perciò neppure che nel cosiddetto “Trattato della Passione” la beatitudine del presente sia descritta nei termini del rapporto dell’anima con lo Sposo, secondo l’interpretazione allegorica del Cantico dei Cantici, ove la sposa è l’anima e lo sposo è il Cristo (per Benedetto però è Dio stesso). Ciò è in effetti suscettibile di aprire la porta a rappresentazioni che possono inclinare alla sensibilità e finanche alla sensualità, come non di rado è avvenuto, e questo sarebbe in aperto contrasto con quella astrazione che della Règle è elemento fondamentale, ma si deve ricordare che tale beatitudine è sì descritta con immagini di gioie dei sensi, ma si tratta dei sensi spirituali, antitetici a quelli del corpo fin da Origene, il “grande maestro”, come lo chiama sempre Eckhart, che è poi quello stesso che ha iniziato l’esegesi mistica del Cantico dei Cantici[15].

Il “Trattato della Passione” è tutto incentrato sul Crocifisso, ed è evidente che questa è un’immagine, che in quanto tale sembrerebbe contrastare con la rimozione di tutte le immagini del divino insegnata dalla Règle, ma si deve notare innanzitutto che essa non è in primo luogo un’immagine di Dio, bensì l’immagine di un uomo, nella quale e con la quale si negano perciò tutte le immagini per così dire celesti, trascendenti, del divino, proprio in quanto quell’uomo viene pensato anche come Dio. Sotto questo profilo essenziale, perciò, il Crocifisso è un’immagine non di Dio, ma della morte di Dio, giacché pone nel divino stesso la finitezza, il dolore e la morte.

Sulla base del principio di verità, enunciato da Boezio, e ripetuto spesso da Eckhart, per cui nelle cose divine non dobbiamo usare l’immaginazione, ma solo l’intelligenza, Benedetto enuncia una proposta nuova a proposito della Passione: non dobbiamo immaginarcela come avvenuta una volta in Gerusalemme[16], ma contemplarla in noi stessi; dobbiamo meditare i nostri dolori come le sofferenze di Cristo, perché le nostre sofferenze sono quelle di Cristo, e dunque di Dio[17]. Proposta non solo nuova, ma anche di straordinaria profondità, in quanto implica la contemplazione del divino non in una rappresentazione, che lo pone in altro, ma in noi stessi, ovvero nella realtà, non nell’immaginazione.

Benedetto sottolinea che nella Passione si deve contemplare non l’uomo separato da Dio, ma uomo e Dio insieme, e dunque l’immagine del Crocifisso è un’immagine per così dire negativa del divino, che toglie vie tutte le perfezioni attribuite a Dio dalle immagini consuete. Porre in Dio la sofferenza e la morte, significa porre in lui la negazione, riconoscere la negazione come elemento essenziale del divino, il che significa riconoscere Dio non come ente, ma come Spirito, «essere senza essere, che è l’ Essere»[18].

Nel suo linguaggio speculativo, Hegel ripete ciò che era stato detto da quei mistici medievali, non a caso chiamati appunto “speculativi”, che costituiscono il retroterra tanto di Benedetto quanto del filosofo tedesco[19]:

«Questa sofferenza e questa morte, questo sacrificio mortale dell’individuo per tutti, è la natura di Dio, la storia divina, la soggettività universale assolutamente affermativa, ma questo è il porre la propria negazione. Nella morte è intuito il momento della negazione […] “Dio stesso è morto”, si dice in un canto luterano. Con ciò è espressa la coscienza che l’uomo, il finito, ciò che è fragile, la debolezza, il negativo, sono pure un momento divino, che tutto ciò è in Dio, che la finitezza, la negatività, l’alterità, non sono fuori di Dio e che l’alterità non è un ostacolo per l’unità con Dio. L’alterità, il negativo, è conosciuto come momento della stessa natura divina […] La natura di Dio è spirito, e allora la negazione è il momento essenziale […] lo spirito è spirito solo in quanto è negazione della negazione, e dunque contiene in sé il negativo»[20].

Il completo distacco produce quindi l’abbandono anche della rappresentazione del Cristo e della sua Passione, ma, paradossalmente, proprio in quanto estremo distacco, è morte dell’egoità e, con essa, intima partecipazione alla “natura di Dio, che è spirito”, di cui la negazione – la Passione e la morte - è momento essenziale, e proprio questa intima partecipazione dà la perfetta pace, la suprema quiete.

Certo è, comunque, che la fine della rappresentazione, l’immergersi nell’interiorità, significa la fine della religiosità nel suo aspetto esteriore, istituzionale, liturgico e, implicitamente, anche la fine di ogni mediazione ecclesiastica. Non meraviglia perciò che la Regola di perfezione, dopo aver nutrito la grande stagione mistica del Seicento francese, sia stata anch’essa condannata alla fine del secolo come “quietista”, in quella che gli storici francesi chiamano la déroute de la mystique, e sia così scomparsa dal patrimonio comune della cristianità.

Il paradosso del quietismo è infatti il paradosso stesso del Vangelo[21], che invita all’umiltà, al distacco, all’ abbandono alla volontà di Dio, alla rinuncia a se stessi, e dunque anche ad ogni pretesa di “sapere” - soprattutto sul divino - come condizione del conseguimento della pace, della perfetta quiete.

Sotto questo profilo fondamentale, nonostante le molte differenze, la vicenda del quietismo ci pare ancor oggi assolutamente essenziale.


NOTE

[1] ⬆︎ Si può vedere il Dictionnaire de Spiritualité, alle voci Quies et otium e Quiétisme, vol. 12, coll. 2748-2842, Beauchesne, Paris 1986. In sintesi, La disputa sul quietismo, pp. 282-286 della mia Storia della mistica occidentale, Le Lettere, Firenze 2015.

[2] ⬆︎ Cfr. ad es. Gv 14, 27; 20, 19-21. Il termine greco eirene (pace) è uno dei più frequenti nel Nuovo Testamento.

[3] ⬆︎ Cfr. Meister Eckhart, Dell’uomo nobile, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 2014, p. 116.

[4] ⬆︎ Cfr. Lc 9, 23; Mt 16, 24, ecc.

[5] ⬆︎ Cfr. Meister Eckhart, I sermoni, a cura di M. Vannini, ed. Paoline, Milano 2002, pp. 387-396.

[6] ⬆︎ Cfr. la Introduzione a Benedetto da Canfield, Regola di perfezione, a cura di M. Vannini, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2022.

[7] ⬆︎ Cfr. H. Brémond, Histoire littéraire du sentiment religieux en France, Bloud et Gay, Paris 1916 et 1928, t. II, pp. 155-158; t. VII, p. 266.

[8] ⬆︎ Cfr. ancora la Introduzione alla Regola di perfezione, cit. Una prima versione, più breve, dell’opera, è L'Exercice de la vollunté de Dieu, pubblicato da J. Orcibal alle pp. 45-77 della sua edizione critica de La Règle de Perfection, PUF, Paris 1982. La traduzione italiana dell‘Exercice, a cura dello scrivente, è in «Mistica e Filosofia», 2, 2021, pp. 97-136.

[9] ⬆︎ Per il cruciale concetto di morte – o morti – dell’anima, rimando al mio La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Le Lettere, Firenze 20042.

[10] ⬆︎ Cfr. Benedetto da Canfield, Regola di perfezione, cit., Parte III, cap. 7, p. 161.

[11] ⬆︎ Vedi la Parte III dell’opera, cap. 16, pp. 208-211.

[12] ⬆︎ Cfr. la Introduzione di Orcibal alla Règle, cit., p. 38.

[13] ⬆︎ Cfr. Angelus Silesius, Il Pellegrino cherubico, a cura di G. Fozzer e M. Vannini, Lorenzo de’Medici Press, Firenze 2018, I, 3; I, 7.

[14] ⬆︎ Lo sottolinea con la consueta profondità Hegel: la realtà storica del Cristo rende effettivo (wirklich) il concetto di Incarnazione: nell’unico individuo sono infatti compresi tutti, a differenza dal concetto induista delle infinite incarnazioni, con le quali «la divinità diventa astrazione» (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla Filosofia della Religione, a cura di E. Oberti e G. Borruso, vol. II, pp. 340-344, Zanichelli, Bologna 1974).

[15] ⬆︎ Il senso spirituale, o “divino” è «di un altro ordine rispetto al senso comunemente indicato con questa parola», scriveva Origene (Contra Celsum, VII, 34). Sul tema. cfr. la voce Sens spirituel, in DS, 15, coll. 598-618, particolarmente interessante per quanto concerne san Bonaventura e Ruusbroec, autori molto importanti per il Nostro.

[16] ⬆︎ Cfr. Parte III, cap. 18. Probabile qui la presa di distanza dagli Esercizi spirituali ignaziani, che puntano invece proprio sulla meditazione per immagini della vicenda del Cristo.

[17] ⬆︎ Cfr. Parte III, capp. 18, e 19.

[18] ⬆︎ Cfr. M. Porete, Lo specchio delle anime semplici, a cura di G. Fozzer e M. Vannini, Le Lettere, Firenze 2018, cap. 115, p. 367.

[19] ⬆︎ Ricordiamo, ad esempio, che Eckhart chiama Dio “supremo distacco” nella conclusione del suo trattato Del distacco (Cfr. Meister Eckhart, Dell’uomo nobile, cit., p. 146), come pure lo definisce “negazione della negazione”, sia nelle opere latine (cfr. ad es. il Commento al vangelo di Giovanni, a cura di M. Vannini, Giunti/Bompiani, Firenze-Milano 2017, nn. 556, 692, pp. 710, 870) sia in quelle tedesche (cfr. ad es. il sermone Unus deus et pater omnium, in Meister Eckhart, I sermoni, cit., p. 226).

[20] ⬆︎ Cfr. Lezioni sulla Filosofia della Religione, cit., vol. II, 3a sezione: «La Passione e la Resurrezione di Cristo». pp. 359-376.

[21] ⬆︎ Cfr. Sebastian Franck, Paradossi, a cura di M. Vannini, Morcelliana, Brescia 20212, soprattutto il Paradosso 210, Perpetuum Christianismus sabbatum, p. 305, ove è chiara l’esigenza di toglier via ogni volere, ma anche ogni pensare, ogni sapere, perché vi sia la perfetta quiete del “sabato”.