I nuovi pagani: Marco Vannini risponde a Lorenzo Fazzini

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I nuovi pagani alla riscossa

Avvenire, 7 ottobre 2011, in Agorà - Cultura e religione

di Lorenzo Fazzini

Gettano la sfida all'etica teologica. Natoli sostiene di non essere contro, ma oltre il cristianesimo; Vannini, esperto di mistica, oppone la conoscenza alla fede; e per Hadot la flosofia sarebbe ridotta dalla religione solo a metodologia.

«Neo pagani», indietro tutta. Chi l'ha detto che, per soddisfare i nuovi appetiti religiosi post- moderni (anche un teorico della secolarizzazione come Peter Berger ha ritrattato quel God is Dead lanciato da «Time» nel 1966), siano «meglio tanti dèi che non uno solo»? Oppure che sia “meglio il dio immediatamente riconosciuto perché specchio del proprio desiderio che non uno che dall'esterno si imponga o si proponga come Altro da sé”?

Il sasso nello stagno viene lanciato da Brescia, dalla pacata (ma intellettualmente agguerrita) pattuglia di docenti del seminario teologico della città di papa Montini. I quali, nell' ultimo dei propri «Quaderni teologici» (Morcelliana, pp. 358, euro 25), studiano e criticano La rinascita del paganesimo. I curatori del volume (G. Canobbio, F. Dalla Vecchia e R. Maiolini) constatano: «Negli umani è sempre stata presente la necessità di non cercare lontano quel che serve per immaginare un'esistenza piena, perfino per non rincorrere sogni irrealizzabili: se così non fosse, non si capirebbe come siano sorti i miti tragici di Sisifo, Prometeo e Icaro, i miti idilliaci di un'umanità totalmente riconciliata in se stessa e con la natura, come i miti più recenti di una società libera e fraterna di uguali fondata sull'impegno umano». Sembra riecheggiare l'atmosfera de Il Padrone del mondo di Kobert II. Benson (Jaca Book, da poco riproposto da Fede&Cultura) in questo "mito idilliaco" che trova nel paganesimo umanitario e pacificante il suo orizzonte "teologico".

Ma veniamo a nomi e cognomi. Infatti il lavoro dell'èquipe bresciana ha il gran merito di puntare l'obiettivo su alcuni esponenti del pensiero, italiano ed estero, che si fanno propugnatori - secondo Canobbio & co. - di una visione «neo-pagana» concepita come «una riconquista della libertà». In essa - si legge nell'introduzione - «la creativita può esprimersi all'infinito, non ci sono più vincoli perché non c'è più una verità precostituita». Il neopaganesimo darebbe il la ad una vita umana «sciolta, leggera, senza il peso di doveri impellenti».

Capofila tale visione, secondo «Quaderni teologici», è Salvatore Natoli, filosofo tra i più apprezzati nel Belpaese, docente di morale alla Bicocca Milano, autore di diversi saggi «morali» per le maggiori case editrici (Feltrinelli, Mondadori, eccetera). Secondo Sergio Passeri, che al pensiero di Natoli dedica il denso testo La sfida neopagana all'etica teologica, il quid natoliano è il seguente: «L'instaurazione di un nuovo paganesimo le cui modulazioni non possono prescindere dal fatto d'essere post-cristiane». Tre i nodi concettuali di Natoli che per Passeri sono appunto «postcristiani» (si badi: non anticristiani): l'etica del finito, l'impedimento a un Dio Altro, l'eliminazione della categoria biblica di «promessa». Di qui alcune posizioni di Natoli che rappresentano una "sfida" per la teologia: «il bisogno di salvezza si mondanizza e diviene un'impresa dell'uomo, non più di Dio». Natoli introduce, attraverso categorie come «fedeltà alla terra», «etica del finito», «abitare la terra», una visione che «non rinnega il cristianesimo, ma lo supera».

Un altro contributo del «Quaderno» allarga la prospettiva e indaga altri pensatori che, di qui e di là delle Alpi, sostengono il nuovo paganesimo. L'elenco, e l'indagine (Paganesimo neognostico), è a firma di Mario Zani, che molto è debitore di Massimo Borghesi sul rapporto tra cristianesimo e gnosi. Eccoli, perciò, i «neo-pagani»: da Pierre Hadot a Marco Vannini, da André Comte-Sponville a Frédéric Lenoir (curiosità: Comte-Sponville fa l'editorialista per “Le Monde des Religions”, patinata rivista «spirituale» di Francia, di cui Lenoir è direttore), Duccio Demetrio e ancora Natoli. Coincidenze: questi due ultimi, insieme a Lenoir, sono stati ospiti, nell'ultimo weekend, della gettonata rassegna Torinospiritualità.

Ad Hadot, docente di storia del pensiero ellenistico al Collège de France, viene imputato un errore metodologico: pensare che con il cristianesimo la filosofia sia stata ridotta a semplice teoria. Di Vannini, grande esperto di mistica, Zani scrive: «Lascia perplessi la sua eliminazione del credere a vantaggio del conoscere, la ridezione del cristianesimo a platonismo», a Comte-Sponville, sostenitore di una «spiritualità immanentistica», «sfugge la radicalità delle questioni» perché non opera «uno scavo più profondo» dell'atto credente. Demetrio, filosofo della Bicocca, da parte sua, «è rinunciatario. Parte dalla rilevazione dell'esigenza della metafisica e del bisogno di spiritualità dell'uomo contemporaneo, ma con un esito scritto in partenza: alla domanda non può seguire risposta». Come può il cristianesimo postmoderno essere all'altezza della sfida del neopaganesimo? Il pensatoio bresciano non vuole fermarsi alla denuncia e prova a lanciare il cuore oltre l'ostacolo: «Perché non cercare le ragioni per le quali gli umani restano affascinati da forme di salvezza immediata, piccola ma sperimentabile?». Un abbozzo di risposta viene da Zani, che indica in Fabrice Hadjadj, convertito dall'ateismo, punta avanzata del cattolicesimo francese, una prospettiva plausibile. Hadjadj è il sagace portatore di una triplice istanza in grado di controbattere al neopaganesimo («sguardo metafisico, alterità, relazione»), rintracciata da Zani nel suo La terra strada del cielo (Lindau). In Hadjadj «terra e Cielo non sono la stessa cosa, come afferma la visione olistica panteista, ma non sono neppure alternativi. Sono reciprocamente altri, senza che l'alterità indichi estraneità. Da questa lettura è ragionevole pensare a una spiritualità dell'incarnazione, in cui contemplare il volto di Dio in ogni creatura, senza confonderlo con essa, come avviene nella spiritualità neopagana».


Risposta di Marco Vannini

«Nuovi pagani»

Avvenire, 12 ottobre 2011, in Agorà - Cultura e religione

di Marco Vannini

Dall’inchiesta di Lorenzo Fazzini su I nuovi pagani (pubblicata da “Avvenire” lo scorso 5 ottobre) apprendo che recentemente uno studioso bresciano mi ha attribuito tale qualifica. Questa attribuzione non mi turba, soprattutto se per “pagani” non si intende quelli di cui parla Paolo nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, ma quegli heidnische meister, quei «maestri pagani che conobbero la verità prima della fede cristiana», cui si riferisce, privo di ogni pretesa appropriativa, il nobile Eckhart. Piccolo nano sulle spalle di giganti, non potrei che essere onorato dallo stare in compagnia di Platone e Aristotele, così come mi onora esser stato posto accanto a Pierre Hadot, compianto maestro. Senza voler polemizzare, tanto più per interposta persona, mi permetto solo di segnalare che in questi giorni è uscito, in nuova edizione ampliata, il mio Dialettica della fede (Le lettere) – uno studio sulla fede, appunto, in Eckhart, Giovanni della Croce, Hegel – che contiene una precisa smentita della suddetta attribuzione e, in particolare, proprio dell’opinione che mi viene addebitata per sostenerla, ovvero la opposizione della conoscenza alla fede – intesa, ovviamente, come credenza. Il breve spazio di un articolo non mi consente di argomentare, per cui mi limito a far notare che nella mistica cristiana la fede è pensata non come credenza, generatrice di rappresentazioni “religiose”, destinate fatalmente a scontrarsi con quelle “scientifiche”, ma come distacco, movimento di tutta l’anima – e soprattutto della ragione – verso l’Assoluto, che toglie via ogni rappresentazione e, con essa, ogni elemento accidentale dell’anima, conducendo così alla luce dello spirito. «La fede opera il vuoto e l’oscurità della conoscenza nell’intelletto [...]. La fede non solo non produce nozione e scienza, ma anzi acceca l’anima e la priva di qualsiasi altra nozione e scienza [...]. La fede è notte oscura per l’anima e, quanto più la ottenebra, tanto maggiore è la luce che le comunica». È così che la fede non produce nozione alcuna, ma «con le sue tenebre dà luce alle tenebre dell’anima» conducendola a una «trasformazione soprannaturale», ove «l’intelletto esce da stesso e diventa intelletto divino», in un “sapere” che non è sapere di altro, ma un sapere che è un essere – quell’essere pura luce che è Dio stesso: così san Giovanni della Croce, nella sua Salita del Monte Carmelo. Anche queste poche righe del mistico castigliano, dottore della Chiesa, mostrano come il concetto di fede come conoscenza – conoscenza dello spirito nello spirito – appartenga in proprio al mondo cristiano (in realtà e stata messa in dubbio anche la cristianità di san Giovanni della Croce, vista la sua prossimità a Plotino, che conosceva bene, o alle Upanishad, che non conosceva affatto). Quanto poi esso debba ai “maestri pagani”, e in particolare a quei Platonicorum libri che convertirono anche Agostino, non occorre certo ricordarlo.