Se il Lutero di Vannini diventa un pretesto per criticare il cristianesimo
Giuseppe Lorizio, in: <Avvenire>, sabato 27 maggio 2017.
Dopo aver letto l’ultima fatica di Marco Vannini, Contro Lutero e il falso evangelo (Lorenzo de’ Medici Press, pagine 174, euro 12) si giunge alla conclusione che il profondo e documentato conoscitore della mistica e dei mistici non si scagli contro Lutero e la riforma protestante, ponendosi come voce fuori dal coro mentre celebriamo i cinquecento anni dal suo albeggiare, bensì contro il cristianesimo stesso e la sua fede, nonché contro le sue radici ebraiche. Se questa lettura è corretta, allora è probabile che nessun cristiano possa condividere gli assunti dell’autore, tanto meno un cattolico, sicché risulterà impossibile annettere l’ermeneutica che Vannini offre di Lutero e della sua vicenda alle eventuali posizioni critiche, che non possono mancare fra i credenti in Cristo Gesù che non hanno aderito al suo messaggio. In primo luogo (non solo nelle pagine dedicate specificamente all’argomento, ma in tutto il saggio) si rileva la presa di distanza radicale dalla dimensione dell’alterità fra Dio e l’uomo, la trascendenza e l’immanenza, l’Eterno e il tempo. L’autore aborrisce l’alterità e la nega, adottando una prospettiva profondamente olistica, giungendo a ritenere l’idea di un Dio creatore «una forma ingenua di cosmogonia», ma soprattutto «una fantasia dovuta alla sofferenza della nostra psiche», sicché il racconto biblico viene definito (nelle sue due versioni) un «pasticcio».
Se si può senz’altro ritenere che Lutero radicalizzi l’alterità, interpretandola in termini oppositivi, bisogna tuttavia anche non dimenticare che si tratta di uno dei cardini della rivelazione biblica (ebraico-cristiana), da cui il credente non può prescindere. Proseguendo nella lettura si potrà scoprire che l’autore fa propria la polemica anticristiana di Plotino e Porfirio, contrapponendo la ragione alle verità di fede concernenti l’incarnazione e soprattutto la risurrezione, interpretata plotinianamente come «risveglio dell’anima … non insieme al corpo, ma dal corpo». Vannini ritiene che la battaglia di questi grandi filosofi antichi venga condotta «in nome della luce della verità (…) che è l’oggetto della buona novella, anzi la buona novella stessa». In particolare il kerygma della risurrezione avrebbe origini paoline, come il cristianesimo in generale, dimenticando che nel testo più antico in cui tale annuncio viene riportato, Paolo afferma con chiarezza che sta trasmettendo quanto ha ricevuto (tradizione). Non nasconde, l’autore, la propria simpatia verso le note tesi nietzscheane, che si premura di riportare.
Quello cui l’autore anelerebbe sarebbe quindi un cristianesimo senza redenzione storicamente attuata e una metempsicosi (trasmigrazione) dell’anima, che ha bisogno di liberarsi dal corpo per potersi fondere col Tutto. E non sembra marginale l’accusa, rivolta a Lutero di strumentalizzare la Scrittura, ritenendola parola di Dio, mentre è semplice parola umana, giungendo ad affermare che la Bibbia sarebbe il «papa di carta» del protestantesimo. In ultima analisi assistiamo qui al rifiuto di ogni religione positiva o rivelata, né sembra doversi ritenere deteriore il fatto che, rifacendosi a Bornkamm, «il senso storico di Lutero non è mai senso storico, ma teologico e storico insieme». Non può essere, infatti, diversamente per nessuno, in quanto non si da mai un senso storico allo stato puro, ma l’intreccio storia/fede è costitutivo di ogni ermeneutica applicata ai libri in cui la rivelazione si attesta. Vannini non perdona al riformatore di aver abbandonato l’attenzione verso la mistica, in particolare della Teologia tedesca, libretto che Lutero attribuiva ingiustamente a Taulero, ma in cui si esprime comunque la prospettiva del misticismo renano.
Sull’argomento si sta sviluppando un ampio dibattito. Qui interessa notare come l’opzione di fondo, che anima non solo questo scritto, ma tutta la produzione di Vannini (al quale non possiamo non essere grati per la mole di lavoro svolto nel recupero e nell’interpretazione di testi mistici), sia quella verso un misticismo speculativo, che lo conduce a valorizzare, non sempre ovviamente a torto, il pensiero greco e umanistico, dal quale non possiamo prescindere neppure in quanto credenti. I ricorrenti riferimenti a Hegel impediscono all’autore di mettere a fuoco la problematica di quanto luteranesimo vi fosse nel suo pensiero, che oggi a buon diritto si può interpretare come una immensa staurologia (filosofia della croce), come anche la contrapposizione fra Kierkegaard e Lutero, determinata dal degrado della Chiesa danese, in cui si vivrebbe un cristianesimo ormai mondanizzato, dimenticano l’elemento o filo rosso comune fra l’iniziatore della riforma e il cupo teologo, «pessimista e umorista» di Copenaghen, ossia la «logica del paradosso». Infine lo strale lanciato da Nietzsche nell’Anticristo contro il monaco tedesco, che avrebbe ristabilito la Chiesa, attaccandola e quindi sarebbe responsabile della sopravvivenza della fede cristiana in Occidente risulterà alla fine un riconoscimento, al quale come cattolico sento di dover aderire, ritenendomi in sintonia con quanto affermava Joseph Ratzinger, secondo il quale neppure la Chiesa cattolica sarebbe la stessa senza Lutero, che – come ebbe modo di dire a Erfurt – ha avuto il coraggio di riporre al centro la questione di Dio e della misericordia (giustificazione), in tempi che tendevano a obliarla.
Replica di Marco Vannini
Il titolo dell’articolo di Giuseppe Lorizio “Se il Lutero di Vannini diventa un pretesto per criticare il cristianesimo” (Avvenire, 27 maggio u.s.), seria disamina del mio recente Contro Lutero e il falso evangelo, coglie solo in parte la verità. In effetti la critica a Lutero è un pretesto, ma non per criticare il cristianesimo, bensì, casomai, un cristianesimo. Cerco di spiegarmi, in breve.
La critica a Lutero è svolta nei due capitoli centrali del libro e si articola intorno a una tesi, maturata nel corso di mezzo secolo di ricerca sulla mistica tedesca, prima e dopo il Riformatore: Lutero aveva recepito la dottrina fondamentale della mistica, ovvero il distacco, la rinuncia a se stessi, allo “io” e al “mio”, per cui la luce eterna penetra nell’ anima e la trasforma.
Come hanno mostrato di recente anche gli studi di Pierre Hadot, nella mistica medievale si conservava non solo il cuore dell’ insegnamento evangelico (cfr. Lc 9, 23 ), ma anche l’ ispirazione della filosofia antica, “esercizio di morte”, come la chiama Platone.
Questa mistica, universale, esperienza di “morte dell’anima” e rinascita spirituale si trasforma però in Lutero in una pretesa di verità, una pretesa di valore, per cui quell’egoità cui si era rinunciato ritorna più forte e prepotente che mai – ed allora il distacco si capovolge in estremo attaccamento all’ego. Ne è riprova, ad esempio, il fatto che mentre Eckhart pensa che i filosofi antichi abbiano ricevuto la medesima luce e verità dei cristiani, per Lutero i pagani sono tutti dannati, come tutti quelli che non accettano il “suo evangelo”. Già: il ”suo” evangelo , che non è evangelo proprio perché “suo”. Un’ altra riprova: Eckhart pensa che potremmo fare anche a meno della Scrittura, perché abbiamo la creatura, ed “ogni creatura è piena di Dio ed è un libro”. A Lutero, invece, come sostegno dell’egoità la Bibbia è necessaria, ed infatti la interpreta ad arbitrio, scagliandosi controErasmo, l’umanesimo, la filologia, che leggono i testi onestamente, secondo ragione e verità storica.
Lutero è, dunque, il “pretesto” per combattere l’insistenza sull’ego, magari sotto la veste della “persona”, che è minaccia costante del cristiano, come pure quel biblicismo, per cui, ad esempio, un editore cattolico italiano mette in vendita la Bibbia come “Via verità, vita”, applicando alla Scrittura ciò che Gesù ha detto di se stesso.
Il senso del mio libro si coglie perciò dall’inizio, nei primi due capitoli, che trattano di cosa siano evangelo e fede. Evangelo è il “lieto annuncio” della beatitudine senza limiti che pervade l’uomo povero in ispirito delle beatitudini (appunto!) evangeliche. Povero in ispirito è, come spiega Eckhart, l’uomo che ha rinunciato a se stesso, e perciò nulla vuole, nulla ha, ma soprattutto “nulla sa”, e con ciò rimuove quel preteso sapere teologico sul quale si fonda il suo ego. In parallelo, la fede non è credenza, che conferisca un sapere al di sopra di quello dell’umana scienza; no, la fede è distacco, che “toglie via ogni scienza e ogni preteso sapere”, e conduce l’anima nel “nulla”, nella “notte”, in modo che, “uscendo da se stesso, l’intelletto umano diviene divino”. A parlare così, lo sottolineo, è il Dottore mistico della Chiesa san Giovanni della Croce.
Non è questo cristianesimo? Io penso il contrario. Ritengo che la via del distacco, la via mistica dell’interiorità di agostiniana memoria, sia la via maestra, via universale, “cattolica” nel senso originario ed etimologico della parola, e perciò capace di parlare oggi come ieri all’intelligenza e al cuore, mentre il rimando all’esteriorità, alla vera o presunta storicità della “fede biblica”, può apparire all’ uomo contemporaneo come una fuga nel particolare, nell’irrazionale, nell’immaginario.