Meister Eckhart e l'anima in cerca di Dio

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Maurizio Schoepflin, in: <Avvenire>, sabato 6 maggio 2017.

Il «Commento al Vangelo di Giovanni» è l'opera più matura del mistico tedesco, che ebbe larga fama come predicatore. Subì anche un processo per sospetto di eresia, ma le sue idee hanno ispirato, fino alla modernità, teologi e filosofi

Contemporaneo di Dante - nacque in Turingia intorno al 1260 e morì verso il - Eckhart, fattosi frate domenicano, si impose ben presto come una personalità di grande valore, tanto da meritarsi il titolo di Meister, maestro, con il quale è passato alla storia. Sia all'interno dell'Ordine dei Predicatori, ove giunse a occupare ruoli particolarmente autorevoli, sia nelle aule universitarie - insegnò nei celebri atenei di Parigi e di Colonia -, godette di un vasto prestigio e di larga fama.

Tenendo conto di ciò, risulta davvero sorprendente la decisione presa dal vescovo di Colonia nel 1326 di aprire nei confronti di Eckhart un processo per sospetto di eresia, processo che, fra alterne vicende, si chiuse definitivamente nel 1329, probabilmente dopo la morte dello stesso Meister, con l'emanazione della Bolla In agro dominico, con la quale il Pontefice avignonese Giovanni XXII, a cui Dante riserva parole di fuoco nel XVIII canto del Paradiso, condanna numerose tesi eckhartiane. Diverse proposizioni censurate dalla Bolla papale sono tratte dalla più rilevante delle opere latine lasciateci da Eckhart, il Commento al Vangelo di Giovanni, un testo di grande impegno teologico, che viene ora riproposto (Bompiani, pagine 1090, euro 40,00) a cura di Marco Vannini, il maggiore studioso italiano della figura e dell'opera del mistico tedesco. Il testo risale probabilmente al 1311-1313 e si presenta come l'opera della piena maturità dell'autore, il quale, come annota il curatore, «attraverso il lungo commento al testo giovanneo articola essenzialmente un concetto: la nascita del Logos nell'anima, e delinea così una figura: quella dell'uomo giusto, dell'uomo nobile, del Figlio».

In questo contesto, nel quale il vertice della vita cristiana è la generazione del Verbo nell'anima e la spiritualità autentica viene a consistere non tanto nella conoscenza di Dio ma nella partecipazione alla sua stessa vita, assume un'essenziale importanza il totale distacco e l'allontanamento dalla dimensione creaturale e temporale. Si tratta di abbandonare il finito per l'infinito, cosa che permette all'uomo di divenire giusto e nobile, privandosi della volontà e abbandonandosi serenamente a quella divina. Così l'anima si fa simile a ciò che ama e l'immagine di Dio si imprime in essa.

Tanto suggestive quanto complesse, le dottrine di Eckhart hanno continuato nei secoli a esercitare un notevo le fascino - il cardinale Niccolò Cusano, celebre filosofo del Quattrocento, le giudicò con grande favore - fino a essere oggetto di quella che il curatore definisce una "vera e propria riscoperta" da parte degli idealisti tedeschi, in particolare di Hegel, il cui edificio speculativo Vannini non esita a definire «intimamente ed essenzialmente eckhartiano».