Massimo Polidoro, Marco Vannini, Indagine sulla vita eterna

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Massimo Polidoro, Marco Vannini, Indagine sulla vita eterna, Arnoldo Mondadori Editore, 2014, pp. 240, € 18.00, ISBN 9788804638223

di Franca Bacco, in <Universa.Recensioni di filosofia – Anno 4, Vol. 2 (2015)> Università degli studi di Padova

Questo saggio, reso in forma di dialogo, si propone di indagare il tema del destino dell’uomo al di là della morte. I due autori hanno interessi e punti di vista molto distanti tra loro: Massimo Polidoro ha una formazione di tipo scientifico, Marco Vannini è filosofo e studioso di tradizioni mistiche.

Il dialogo nasce in primo luogo dal desiderio di capire se esistano elementi sufficienti a sostegno della credenza in un aldilà, facendo ricorso alle convinzioni delle tradizioni occidentali e orientali. Dal momento che il problema della morte è in fondo il problema del senso della vita, innanzitutto gli autori si interrogano sul significato di “vita eterna”: una prosecuzione di una qualche forma di vita in un futuro infinito, o non piuttosto una diversa forma di vita che, proprio in quanto eterna, è già presente? Dopo una ricostruzione storico-antropologica delle antiche credenze riguardo al destino dell’uomo dopo la morte, gli autori dedicano l’ultima parte del saggio alle cosiddette “prove scientifiche” sulla vita eterna, attraverso l’analisi dello spiritismo e della parapsicologia.

Il volume si compone di tre parti articolate in quattordici capitoli e una conclusione. Nella prima parte, il dialogo avviato dagli autori rivela due modi di pensare diversi: per Vannini le scienze sono un sapere storico soggetto alla mutevolezza dei tempi che si svolge a tutto campo, inglobando anche quello religioso; secondo Polidoro, invece, la scienza è una sola e si basa su osservazioni obiettive. Pur ammettendo altri percorsi per conoscere la realtà, come l’intuito, l’autorità o il misticismo, egli sottolinea però che, a differenza di quello scientifico, questi sono soggettivi, pertanto non obiettivi e verificabili (pp.10-11). Affrontando il tema sulla vita e la morte, Vannini afferma che insieme a un primo livello di vita, quella che Aristotele chiamava vegetativa, nell’uomo sono presenti altresì la vita sensitiva e la vita intellettuale, che è quella specificatamente umana e spirituale, in quanto l’aggettivo “intellettuale” aristotelico nel suo senso più forte è quello di spirituale (pp.12- 13). Il dialogo si sposta così dal concetto di vita biologica a un genere di vita spirituale. Vannini ricorda che, secondo i mistici cristiani, la dimensione dell’eterno non è una prosecuzione infinita del vivere sotto il profilo biologico, bensì un’esperienza esistenziale di ordine spirituale, nella quale l’eternità è già tutta nel presente.

Secondo Polidoro, l’affermazione di un’esperienza di tipo spirituale, che per definizione è soggettiva, può essere accolta solo per fede, dunque anche rifiutata da parte di chi non crede. Vannini, facendo ricorso al pensiero di Eckhart, San Giovanni della Croce, Hegel, Simone Weil, obietta affermando che la fede in senso forte non è una credenza, ma al contrario essa è “il movimento dell’intelligenza che si muove verso l’assoluto, e perciò toglie via ogni relativo, ogni credenza” (p.15). Pertanto, l’esperienza dello spirito va pensata come universale, non soggettiva.

Sul significato della morte, Vannini osserva che in diverse religioni la parola “morte” è spesso associata a un concetto morale religioso che è quello di peccato. La colpa, se grave, è vista come una morte per l’anima e richiede perciò una espiazione, una purificazione. Tuttavia, benché meno nota, una concezione positiva di morte è presente non solo in molte religioni, ma anche in filosofia. Risale a Platone l’idea che la filosofia sia un “esercizio di morte” necessario affinché la facoltà razionale dell’uomo, l’anima, possa liberarsi dalle passioni che le impediscono la contemplazione pura della verità. Anche le tradizioni orientali considerano la morte, ovviamente non biologicamente intesa, in senso positivo: l’uomo deve attraversare numerose morti nel suo progressivo cammino di purificazione e di ascesa verso il divino (p.18). Pertanto la morte spirituale, ossia l’annichilimento dell’ego, il “peccato originale” dei cristiani, la “colpa antica” della tradizione orfico-pitagorica, è l’inizio della vita spirituale: mors mystica, ovvero una morte che genera vita.

A partire dalla domanda “cos’è il tempo”, gli autori mettono a confronto il concetto lineare di esso, ossia la concezione comune di tempo come scansione in passato, presente, futuro, con quello circolare presente nel pensiero antico occidentale e orientale. Rispetto alla concezione del mondo ellenico, che ricercava la stabilità dell’incessante ciclicità del divenire naturale, il pensiero cristiano, in particolare quello di sant’Agostino, esprime un concetto lineare del tempo.

Polidoro e Vannini concordano nel considerare il tempo come una costruzione pensata dall’uomo, che serve a misurare e catalogare i fatti della nostra vita, a rapportarsi con le cose e con gli altri esseri umani (pp.22-23). L’idea tradizionale del tempo è stata smentita dalle teorie della fisica contemporanea. Da Aristotele a Newton i concetti di spazio e tempo erano concepiti come realtà assolute, ma è la teoria della relatività di Einstein a mettere in crisi queste concezioni: lo spazio non è più quello tridimensionale della geometria euclidea, né il tempo un qualcosa di separato, al contrario essi formano un’entità quadridimensionale, chiamata “spazio-tempo”, che conserva una realtà indipendente solo nell’unione dei due concetti (p.24).

Vannini osserva che concetti come presente, passato, futuro hanno senso solo in rapporto all’idea tridimensionale del tempo, ma non ne hanno per la fisica contemporanea, e questo vale anche per il concetto di “eterno”. Inoltre egli sottolinea che la teoria della relatività è tanto lontana da una visione tradizionale del mondo in Occidente, quanto invece vicina alle filosofie e mistiche dell’Oriente; per esempio, a differenza della filosofia greca, quella orientale ha sempre sostenuto che lo spazio e il tempo sono concetti relativi, illusori, ovvero costruzioni della mente (p.26). Polidoro aggiunge che comunque anche in Occidente sono state fatte simili riflessioni, infatti, nella Critica della ragion pura, Kant considera spazio e tempo non come realtà sostanziali, ma come modi con cui il soggetto coglie sensibilmente le cose (p.27).

Sui collegamenti tra fisica moderna e misticismo, gli autori prendono in esame il concetto di tempo come “eterno presente”. Vannini scrive che dal punto di vista mistico, uscendo dalla dimensione temporale, si trascende anche l’ordine delle cause e degli effetti, e nel distacco si approda a una dimensione che appare eterna. La comprensione di questo concetto, aggiunge Vannini, è resa più facile grazie alle teorie della fisica moderna, laddove si stabilisce che lo spazio-tempo è uno spazio privo di tempo, che appartiene a una dimensione superiore (p.29).

Nel capitolo dedicato al tema di infinito ed eterno, gli autori si soffermano sul concetto di infinito e sulla sua doppia valenza, positiva e negativa. Vannini afferma che il vero senso di infinito è quello di rimandare oltre, ovvero, stando a quanto dice Aristotele, di aggiungere sempre qualcosa a una quantità determinata senza che ci sia mai un elemento ultimo. All’inizio della riflessione filosofica, questo concetto è stato associato a un’idea negativa proprio per il suo significato di incompletezza e potenzialità non attuata e non attuabile. In particolare, per Parmenide solo ciò che è “finito” è perfetto in quanto compiuto, nel senso che non ha bisogno di nulla per la sua completezza (pp.36-37). Al contrario, nel pensiero cristiano l’idea di infinito viene a essere intimamente connessa con l’Assoluto, assumendo in tal modo un valore positivo. Vannini nota che l’eternità intesa come prosecuzione infinita della nostra vita nel tempo, benché apparentemente confortante di fronte al timore di finire nel nulla, osservata più attentamente si mostra in tutto il suo orrore, sia che la si pensi come un non compimento, un rimando senza fine, sia che la si pensi, al contrario, come un compimento eterno, e quindi immutabile. Se l’infinito è tanto orribile, Polidoro si domanda perché mai qualcuno dovrebbe desiderare la vita eterna. Vannini risponde che la bellezza dell’infinito, dell’eterno non è nel rimando senza fine, ma in una finitezza che prende il carattere dell’infinito, in un presente che assume la pienezza dell’eterno (p.38).

Nella seconda parte, per comprendere come l’idea di una vita oltre la morte sia una delle più antiche immaginate dall’uomo, gli autori illustrano le numerose forme che questo concetto ha assunto nelle varie culture: dalla vita nell’aldilà per gli egizi, vista come una continuazione di quella terrestre, con le medesime necessità e gioie (p.58), all’oltretomba triste e oscuro per gli antichi greci e romani (pp.73-79), dal limbo in attesa di una resurrezione per gli ebrei alla visione di inferno e paradiso per cristiani e musulmani e, parallelamente, nelle religioni indiane, un aldilà percepito come luogo di transito per le anime che si reincarnano (pp.89-110).

Nella terza parte, l’argomento che riguarda l’esplorazione delle prove scientifiche sull’immortalità dell’anima, ossia quello dei fenomeni proposti dallo spiritismo e dalla parapsicologia, viene affrontato da due punti di vista diversi, a volte divergenti: quello empirico di Polidoro e quello filosofico di Vannini. Quest’ultimo osserva che alla base dello spiritismo vi è una concezione dualistica delle cose, aldiquà e aldilà, fuorviante per la comprensione del concetto di vita eterna, in quanto l’idea di eternità elimina ogni dualismo di questo tipo. Inoltre egli sottolinea che la presenza di dimensioni normalmente al di fuori della nostra percezione, accessibili solo in determinate condizioni, sconvolge solo chi è prigioniero del dualismo naturale-soprannaturale, ma non preoccupa affatto quando si comprende l’insostenibilità razionale di tale dualismo, giacché la realtà è comunque una e le distinzioni le poniamo noi, per fini logico-dialogici (p.187). Nella sua conclusione, egli scrive che l’immortalità dell’anima è un’ipotesi possibile, a favore della quale gioca infatti non solo il consensum gentium, ma anche un consenso da parte di alcuni filosofi. Plotino, Porfirio e l’ebreo alessandrino Filone convengono sull’ipotesi della presenza nell’uomo di un corpo sottile, o etereo, o spirituale, da esso separabile, perdurante alla morte della persona ma conservante la stessa forma. Agostino stesso, pur negando che l’anima sia corporea, ritiene che essa abbia “somiglianza col corpo” e, come tale, possa perciò manifestarsi in vario modo prima o dopo la morte della persona a cui appartiene (pp.160-162). Sempre a favore, come possibili indicatori di una qualche forma di esistenza post mortem, giocano anche tutti i “segni” del cosiddetto paranormale. Essi, pur non dimostrando nulla, perché molteplici e spesso contradditori, rappresentano comunque un patrimonio di eventi, che non è possibile liquidare sbrigativamente con atteggiamenti di superiorità “scientifica” (p.226).

Per Polidoro, i fenomeni proposti dallo spiritismo e dalla parapsicologia, tra i quali spiccano quelli sulle vite precedenti, sulle Near Death Experiences e sulla comunicazione con l’aldilà, non sono dimostrabili scientificamente: a tutt’oggi ancora nessuno ne ha dimostrato il reale verificarsi al di là di ogni dubbio, pertanto essi non forniscono prove oggettive sufficienti per affermare l’immortalità dell’anima (p.220).

Il testo per i temi trattati si rivela denso di stimoli. Il contributo di Polidoro si fa particolarmente prezioso nell’ultima parte, laddove mette in rilievo come siano ingiustificati i possibili indicatori di una qualche forma di esistenza post mortem; Vannini, oltre a sviluppare il tema di “vita eterna”, che è l’oggetto proprio dell’opera, fa emergere, attraverso un’attenta analisi filosofica, l’inconsistenza della visione dualistica umano-divino. Questa ampia indagine lascia comunque aperta la domanda sul destino dell’uomo al di là della morte.

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