Marco Vannini, All’ultimo papa

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di Roberto Celada Ballanti, in: <Humanitas>, 1/2016, pp. 182-184

C’è indubbiamente qualcosa di apocalittico nel titolo dell’ultimo libro di Marco Vannini - il noto e riconosciuto specialista di mistica speculativa che da sempre unisce e contamina un fine lavoro filologico di traduttore e commentatore dei classici di quella tradizione con la preoccupazione per la condizione spirituale contemporanea - che evoca gli ultimi tempi, i Novissimi, per quanto la prima impressione sia destinata a stemperarsi e correggersi appena si vada al Prologo del volume e si comprenda che «l’ultimo papa» allude al capitolo dello Zarathustra nietzschiano intitolato A riposo. Qui, in una scena di lugubre, oscura, infera potenza dantesca, il profeta della morte di Dio incontra la figura di un vecchio triste, dal viso magro, dalla mano affilata, che lo apostrofa chiedendogli aiuto, essendo smarrito e solo. Si tratta appunto dell’«ultimo papa». Ha servito fedelmente e fino alla fine il suo vecchio Dio e ora, dopo la sua morte, è «außer Dienst», a riposo, senza padrone, ma non libero, come invece è Zarathustra, il cui stesso annuncio del Gott ist tot è per lui l’alba di una nuova eternità, di una libertà che gli consente di scrivere sul caos, sopportandolo, assumendolo senza nostalgie metafisiche. Nell’ultimo papa, invece, domina la tristezza infinita della sera, la solitudine senza sponde di chi si sente orfano di quel Dio, perché le promesse non sono state mantenute, le fonti appaiono prosciugate, la terra è inaridita.

Eppure, tra i due una segreta complicità affiora, un rispetto profondo si coglie come se fossero di fronte due uomini religiosi, seppur in modo diverso, e come se l’ateismo di Zarathustra fosse l’esito estremo, la paradossale eterogenesi dei fini della volontà di verità che il cristianesimo stesso aveva immesso nel mondo, rivoltandosi, alla fine, contro. Lui, il senza-Dio, trae il suo fuoco dall’incendio acceso da quella fede antica, da quella sconfinata ansia di verità introdotta dal Dio cristiano nel mondo. La sua stessa religiosità gli impedisce di essere cristiano, e il rispetto che prova verso quel vecchio smarrito è il riconoscimento di una provenienza, di un’inaudita Herkunft che li accomuna, di un’unica remota radice ribaltatasi nella sua negazione.

Ma l’evocazione della scena nietzschiana del papa «a riposo» che apre il libro è analogicamente funzionale al fatto, certo eccezionale, che ha segnato la Chiesa cattolica negli ultimi anni, ossia le dimissioni di Benedetto XVI. A lui sono indirizzate, come all’ultimo papa nietzschiano, le sette “lettere aperte” che sostanziano il volume e che mostrano un’originale ermeneutica dell’evento che ha lasciato attonito l’universo del cattolicesimo. Alle origini della rinuncia di Benedetto non stanno, per Vannini, gli scandali che hanno pesato certamente sulla coscienza dei credenti e sulla credibilità della Chiesa, la cui nave, però, dice giustamente l’autore, ha attraversato ben altre procelle. Il vero dramma, dice Vannini, non sono le beghe e gli intrighi curiali, e neppure la dolorosa vicenda della pedofilia, ma qualcosa di più profondo e radicale, di più difficilmente confutabile, perché prodotto non dell’immoralità di questo o di quel rappresentante della comunità religiosa, sempre isolabile ed esecrabile, ma dell’intera coscienza religiosa moderna. «Il vero dramma è un altro e riguarda una cosa davvero essenziale: il venir meno dei fondamenti storici della fede» (p. 13).

Per capire quest’ultima fatica di Vannini, la cui radicalità asseconda un pulsione verso la verità che pare crescere opera dopo opera, libro dopo libro, bisogna tenere conto delle due radici del suo itinerario di pensiero che ho sopra indicato: la mistica e la filologia, solo apparentemente remote ma in realtà, come la modernità attesta, intimamente cospiranti. Per capire la sovrana libertà critica di Vannini occorre muovere da questa coppia, che segna non a caso le due sorgenti essenziali della moderna coscienza religiosa. Due forze, due energie che sorgono entrambe dalla curiosità immensa, tutta moderna appunto, di scoprire come realmente stiano le cose, e che concorrono a un processo erosivo del principio di autorità e del letteralismo. La modernità nasce come crisi del fondamento, ossia crisi dell’equazione tra verità e antichità, verità e origine. E secoli di metodo storico-critico hanno logorato la lettera delle Sacre Scritture, mostrando il circolo vizioso logico, nella figura della petitio principii, che inficia il fondamento di ciò che dovrebbe fondare, ossia il principio di autorità scritturale. Così, quando Lessing nel corso del Fragmentenstreit dice che le affermazioni di Cristo presentano «una certezza meramente storica» e che l’ispirazione divina e l’infallibilità degli autori da cui le apprendiamo sono «non più che una certezza storiografica», riformula una tesi del terzo dei Frammenti di Reimarus intitolato: Impossibilità di una rivelazione che tutti gli uomini possano credere in una forma stabilita. In esso, l’andamento corrosivo tocca l’apice quando l’autore chiede cosa fondi la pretesa veritativa della rivelazione. La risposta sta, appunto, nel circolo della petitio principii: l’annuncio salvifico rinvia ai suoi testimoni che, per legittimarsi, si fondano sull’annuncio stesso, ossia su ciò che andrebbe giustificato. O, altrimenti espressa la circolarità, la testimonianza delle Scritture è vera, perché la verità rende testimonianza di sé nelle Scritture. «Quanti uomini fra Dio e me!», esclamava Rousseau nella Profession de Foi du Vicaire Savoyard, smascherando con la mordacia delle Lumières lo stesso ordito circolare che già Hobbes e Spinoza avevano denunciato.

Questa crisi dei fondamenti, del principio di autorità, qui sinteticamente evocata, è l’ermeneutica che Vannini propone per rendere ragione del gesto di Benedetto XVI. Ma, se questa è l’analisi, il libro si sostanzia, si diceva, di sette lettere aperte che rispondono a una precisa domanda: è possibile affrancare la religione dal letteralismo senza dissolverla? È possibile ripensare il cristianesimo fuori dal fondamento autoritativo del binomio rivelazione-tradizione, e muovendo dalla consapevolezza della relatività dei fondamenti storici? È possibile riabilitare l’esperienza religiosa in virtù di un altro fondamento, quello della libertà e dello spirito?

In fondo, ed è un’ulteriore analogia con il Lessing della disputa sui Frammenti, Vannini offre con queste lettere alla Chiesa cattolica un “consiglio”, un “suggerimento”, come Lessing aveva fatto a quella Chiesa protestante interpellata in nome dello spirito di Lutero, contro l’«insostenibile giogo della lettera» da cui il protestantesimo doveva essere affrancato. E il ”consiglio” suona molto affine: rinunciare a fondare la fede cristiana sulle Scritture come documento normativo della verità storica e insieme ispirato di rivelazioni divine. Questa è, nella sostanza, la proposta di Vannini alla teologia, invitata a compiere quell’autentica rivoluzione copernicana nel dominio religioso contenuta nel nono degli Axiomata di Lessing, che ripete la soluzione socratica al platonico dilemma di Eutifrone: «La religione non è vera perché gli evangelisti e gli apostoli la insegnarono; ma essi la insegnarono perché è vera».

Ma così, con questo capovolgimento copernicano, la verità sciolta dalla soffocante clausura della lettera torna nel vento, in quel vento dello spirito in cui Vannini la inscrive. Ed ecco allora, dalle ceneri del letteralismo, sorgere la mistica. I cui grandi temi vengono, nel corso del volume, tutti ripercorsi in novitate et libertate spiritus, tanto che antico e nuovo, nova et vetera si saldano sempre nei libri di Vannini a comporre un ordito circolare, o spiraliforme, che rispecchia la stessa vita dello spirito, segnata dalla identitas in novitate, novitas in identitate. Non è strano evocare l’Aufklärung e poi la mistica, perché i pensieri più profondi di Lessing attingono a quell’antica dottrina della luce interiore di Eckhart, di Sebastian Franck, di Sébastien Castellion, arrivati a lui attraverso la feconda corrente del pietismo. Così la modernità, al culmine di se stessa, riscopre nella luce dei mistici, per quanto razionalizzata sia, la via per emendare la religione, e riscopre la stessa tolleranza in quel Medioevo non troppo oscuro, alla fine, se aveva potuto partorire la favola degli anelli che sta al centro del capolavoro teatrale di Lessing, Nathan il saggio.

Un’universalità nello spirito si respira in queste pagine, che sfida ogni particolarismo storico, ogni clausura confessionale. Fondo dell’anima, coincidentia oppositorum, Gelassenheit, distacco, amore, grazia e libertà, ecco il «tesoro nascosto» che il cristianesimo, la Chiesa deve disseppellire per ritrovare l’identità. Perché «la verità non può essere scritta, né detta, giacché non è un contenuto dogmatico, ma la vita stessa dello spirito di Dio nell’uomo, per cui la lettera, ovvero la Scrittura, è morte. Non nella Scrittura, ma nel cuore di ogni uomo è il rivelarsi di Dio: il Vangelo è nel cuore degli uomini tutti, giacché è lo Spirito santo - non un libro scritto con l’inchiostro, ma un libro scritto da Dio nelle tavole del cuore» (pp. 192-193). Esiste un altro pharmakon contro irreligiosità e fondamentalismo che segnano, in modo solo apparentemente opposto, il nostro tempo?.