Il lessico di Vannini

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di Francesco Roat, <l'Adige>, 5 agosto 2013.

L'uomo mistico non è un visionario ma vede le cose nella pura e muta bellezza del loro essere.

Il dizionario che insegna la saggezza

La parola «mistica» nell'età moderna viene spesso usata per alludere ad esperienze ineffabili o estatiche (tipo visioni o rivelazioni) riferite ad ambiti soprannaturali o metafisici che consentirebbero a chi le prova di ottenere una conoscenza impossibile da conseguire mediante la ragione. Ma questa è concezione davvero riduttiva e spregiativa di un modo di porsi spirituale che in realtà non ha nulla a che fare con esoterismi, irrazionalità e fenomeni paranormali. Mistica e filosofia nota infatti Marco Vannini nel suo eccellente -Lessico mistico. Le parole della saggezza- (Casa Editrice Le Lettere - non sono concetti opposti, in quanto mistica «è la dimensione propria dello spirito», lo status umano più profondo e autentico, «di cui la componente noetica, l'intelligenza, è parte determinante».

Ma quale sarebbe, allora, la peculiarità niente affatto misteriosa di questa chiamiamola pure disciplina spirituale? Quali i tratti caratteristici che la distinguono dalla religiosità tradizionale o dalla speculazione filosofica? Forse, come suggerisce l'autore di questo insolito «Lessico», la mistica intesa come scienza dell'anima, in primo luogo «Consiste nell'esercizio del distacco» come abbandono dell'inessenziale e accidentale per pervenire a ciò che davvero conta, cioè a quel conosci te stesso (gnóthi seautón): traguardo auspicato come indispensabile già ai tempi dell'Oracolo di Delfi. In tale prospettiva, non certo meramente psicologica, l'invito alla conoscenza, lungi dall'essere rivolto a sondare l'io individuale, è semmai inteso a promuovere un'apertura e disponibilità nei confronti di ciò che qui viene chiamato spirito e che si riferisce ad una dimensione ontologica immutabile che, a seconda delle diverse tradizioni, è stata anche detta Logos, Uno, Tutto, Assoluto, Dio.

Non a caso la voce: «Dio», vocabolo simbolico-metaforico e allusivo per antonomasia, (che rimanda a lemmi altrettanto pregnanti come «amore», «ascesi», «fede», «grazia») ha un ruolo centrale in questo lessico. Poiché accanto ai vari altri appellativi con cui può venir chiamato, Dio - precisa Vannini - è «il termine più comune per indicare il bene più grande e quindi anche l'esperienza cui annettiamo il valore supremo». Però il Dio di cui tratta la mistica - o piuttosto di cui non parla: preferendo i mistici di ogni tempo e luogo la teologia/preghiera apofatica (cioè: non detta, ossia senza parole) ed il silenzio contemplativo, in quanto il divino non può essere colto attraverso formulazioni concettuali - non è un ente-oggetto iperuranico da adorare o una realtà altra rispetto a noi, ma è tutt'uno con l'anima umana. Visto in quest'ottica, storicamente il Dio dei mistici ha quasi sempre preso le distanze da quello delle varie religioni; tanto che molti di essi sono stati considerati eretici o condannati da parte dell'Inquisizione (si pensi solo alla mistica e beghina Margherita Porete, mandata al rogo per le sue idee anticonformiste). Vannini quindi accenna a un paradossale ateismo mistico, che l'autentica esperienza spirituale rivelerebbe; giacché «essa toglie via tutte le rappresentazioni di Dio».

Altra parola chiave per comprendere quale sia la realtà della mistica è senz'altro «contemplazione». Tuttavia essa non significa affatto smarrirsi nell'estasi o rifugiarsi in uno spazio mentale caratterizzato da visionarietà più o meno allucinata. Meditare/contemplare significa invece volgere uno sguardo «benevolente» a tutta la realtà; implica giusto «vedere le cose nella pura, muta bellezza del loro essere». Significa altresì abdicare all'egoità, al perenne desiderio di possesso, controllo, ottenimento. E non fa alcuna differenza se l'oggetto del desiderio, l'obiettivo della brama sia costituito da un ambito fisico o metafisico, mondano od oltremondano.

Secondo i mistici, dunque, anche la pretesa di conoscere ciò che - come il trascendente - valica i limiti dell'umano o quella, apparentemente encomiabile, di acquisire la completa realizzazione spirituale ha sempre a che fare con una velleità, la quale fatalmente comporta controllo e dominio ed è sempre declinabile all’insegna dell’egocentrismo. Perciò il domenicano Meister Eckhart (l’autore più citato da Vannini) in una predica ha l’ardire di questo irrituale monito/auspicio: “Preghiamo Dio di diventare liberi da Dio”; non certo invitando i fedeli all’ateismo, bensì esortandoli a non ambire ad alcun conseguimento: né materiale né spirituale, giacché persino l’ambizione di tipo ascetico-contemplativo è ostacolo in un cammino esistenziale all’insegna della mistica.