Andare al "fondo dell'anima"

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Fabrizio Tassi, in <Redness>, dicembre 2022, pp. 63-65

UN LIBRO CHE È UN ESERCIZIO SPIRITUALE, ISPIRATO DA ECKHART, CONTRO LE ILLUSIONI DELLA PSICOLOGIA E DELLA TEOLOGIA.

Lo spirito, questo sconosciuto. Citando Dante, «Luce intellettual, piena d'amore, / amor del vero ben, pien di letizia, / letizia che trascende ogni dolzore».

Parte da qui, il libro di Marco Vannini. Da una realtà, quella dello spirito, dimenticata sia dal pensiero filosofico laico che da quello reli­gioso. Qualcosa di indeterminabile, una "negatività assoluta" che in realtà è assoluta pienezza.

Per dirla con Eckhart: «Molta gente semplice immagina Dio lassù e noi quagglù. Ma non è così: Dio e io siamo una cosa sola».

Parole simili si trovano nelle Upanishad indiane, nella formula "Tac tvam asi" ("Questo sei tu"), che allude all'identità tra l'atman individuale e quello divino, universale. Un'identità che si trova nel "fondo dell'anima", dove non c'è spazio per la psiche egoica, che si illude di essere libera quando in realtà è schiava di mille determinazioni, come esplicita un celebre detto sufi: «Chiunque non sia Dio e dice "io" è uno shaltan (demonio)».

Vannini spazia da sempre fra le varie tradizioni spirituali e i mistici-pensatori che sono arrivati al nocciolo della questione, in ogni epoca e latitudine. E ogni volta dà la vertigine. Perché offre al suo lettore la possibilità di cogliere il nucleo profondo, e identico, di tradizioni millenarie, di testi complessi, di riflessioni disperse in mille rivoli. Ecco uno dei meriti più grandi della sua opera di divulgazione, che assume spesso i connotati di una vera e propria formazione spirituale-intelletuale, nel senso che offre gli strumenti per andare oltre, passando dalla teoria alla pratica. Anche con riflessioni che suonano estremamente provocatorie per il pensiero contemporaneo.

Qui non si parla di "esperienze religiose" in senso stretto, cioè legate a una questione di fede intesa come credenza, ma di processi intellettuali che vanno al di là del comune pensare, «frutto della proliferazione emotivo-concettuale», come spiega benissimo anche il buddhismo, secondo cui il "nemico" sta negli inquinanti dell'attaccamento, dell'avversione e dell'ignoranza. Anche se poi i concetti utilizzati sono quelli propri a varie tradizioni religiose, a partire dalla necessità dell'umiltà, alla base del distacco, condizione necessaria a una vera libertà.

Nel capitolo che parla dell'Uno e il Tutto, Vannini ci ricorda con Simone Weil che accanto alla fisica della natura esiste anche una «fisica soprannaturale» che ragiona in termini di eterno presente, evocato dalla mistica di ogni tempo, ma ormai anche dalla riflessione contemporanea: «Tutto permane. Tutto è in relazione, anche le anime, e la preghiera le mette in comunicazione».

C'è una prima fase di questa ricerca in cui cominciamo a percepire un "altro" mondo-spazio-tempo, grazie alla fede, alla tensione verso il divino, e poi «questa rappresentazione ingenua diventa vita interiore, scoprendo questa realtà già qui e ora». Prima c'è il "tu" della preghiera, poi la percezione della "luce eterna", l'apertura «alla bellezza del mondo come un tutto, il cosmo come manifestazione visibile di Dio, il bello come manifestazione sensibile del Bene».

Non servono i "sistemi" e neppure gli Spinoza, ma l'Io sono la verità di Gesù, una volta capito chi è e cos'è davvero quell'io, che nulla c'entra con gli psichìsmi e le psicologie, alla base dell'idea di un Dio fatto così e cosà, frutto del nostro attaccamento. Bisogna evitare qualsiasi appropriazione di Dio, che poi è un altro modo per affermare se stessi, un esercizio di potere (come uno strumento di potere sono diventate spesso le religioni).

«La nostra fede è quella di cui parla san Giovanni della Croce, che non produce alcuna nozione o credenza, ma, al contrario, tutte le toglie via e conduce nel vuoto, nel nulla, che è il solo "luogo" ove può mostrarsi la luce. Fede, non credenza teo-mitologica, bensì conoscenza: conoscenza dello spirito nello spirito».

Suonano puntute e illuminanti le pagine sulla "cultura come alienazione", sul modo in cui l'arte, la letteratura e le varie forme di spettacolo e di rappresentazione rischiano di portarci fuori strada, tenendo «l'anima nel vortice dello psichismo», quel sentimentalismo che Hegel definiva "pappa del cuore".

Non per niente c'è un capitolo che, fin dal titolo, non lascia spazio ad equivoci: "Sulla psicologia come malattia": «Priva della conoscenza dello spirito, la psicologia (come, peraltro, la filosofia stessa) vaga smarrita tra mille accidentali determinazioni, senza verità». Simone Weil scriveva che occorre bloccare l'immaginazione, se si vuole lasciar spazio alla grazia, che ha bisogno del "vuoto", l'assenza di desiderio.

Anche la teologia può essere alienazione, quando ignora l'esperienza dello spirito, dell'uomo interiore, come può esserlo la mistica intesa in modo psicologico e sentimentale.

Non si tratta di "vedere Dio" (espressione che suona anche un po' blasfema) ma di «guardare il mondo con gli occhi di Dio». Al contrario la "mistica filosofica" è «conoscenza di sé, dell'unico, comune, universale "dell'anima", non delle mutevoli e accidentali, sue facoltà». Per Vannini sta qui la verità della predicazione di Gesù, che ha poco a che vedere con il clericalismo e la religione istituzionalizzata, originata da una certa interpretazione della sua vicenda terrena. Ecco allora un cristianesimo che non è fondato «su una struttura piramidale depositaria della Verità, ma sulla singolarità delle persone», sulla vita buona e giusta.

In cui la resurrezione non è un atto dimostrativo, una specie di "super-miracolo", ma un evento spirituale, un'esperienza interiore, «conoscenza dello spirito e della sua beatitudine».

Seguono pagine su Kant e l'ebraismo, e su Nietzsche e il cristianesimo (la vena mistica di Nietzsche! «Il suo tentativo di salvare la verità del messaggio di Gesù dalle costruzioni mitiche in cui è stato inserito, soprattutto da Paolo»).

Poi, nella seconda parte, ecco l'analisi del sermone 52 di Meister Eckhart, quello dedicato alla "povertà nello spirito". Un domenicano medievale che predica in chiesa la possibilità e la necessità di diventare la verità stessa, «dunque essere Dio stesso». Una cosa scandalosa e inimmaginabile per quel tempo. Ma anche per il nostro. Per il nostro, a dir la verità, risulta difficile anche capire cosa si intenda per beatitudine, cosa ben diversa dalla felicità effimera, basata sulla soddisfazione di un piacere. «La beatitudine invece è costante; non è un accidentale stato d'animo, ma la realtà propria dello spirito, che sta fuori dello spazio e del tempo, ovvero fuori dal condizionamento».

L'uomo interiore permane immutabile - distaccato, che non vuol dire indifferente, tutt'altro - nella gioia e nella tristezza dell'anima (della psiche) che non toccano lo spirito. Uno stato che si può intuire in qualche modo, presagire, dentro la riflessione di Eckhart, piena di pensieri che sono dei veri e propri spalancamenti, illuminazioni, che Vannini rende comprensibili anche a noi lettori moderni, plasmati da secoli di teologia e psicologia, dalla logica del Dio-Altro fuori dal mondo e da un io che pretende di conoscerlo. L'essere eterno dell'uomo, in quanto spirito (corpo e anima sono destinati a morire), è lo stesso essere di Dio.

Per poi tornare, alla fine del libro, al grande rimosso, lo spirito. Per Meister Eckhart «il paradiso e la vita eterna sono partecipazione alla gioia, alla beatitudine, di Maria e degli angeli tutti: ma questa beatitudine, questa vita eterna, è già qui, proprio in quanto vita eterna, e sono già beati quelli che sono "poveri nello spirito"». Gli anni della predicazione di Eckhart erano gli stessi della Commedia di Dante. «Niente che equivalga a questi due capolavori è più comparso in Europa, ma il loro messaggio è ancora aperto all'intelligenza dell'uomo».