«La mistica? È "esercitarsi a morire". È distacco. Proprio come la filosofia»

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Redness, dicembre 2022

di Fabrizio Tassi

UNA RIFLESSIONE DI MARCO VANNINI, CHE PARTE DAL NATALE E ARRIVA AL MISTERO DELLA PRIMA BEATITUDINE. CHI SONO I "POVERI NELLO SPIRITO"?

«La filosofia non ha che una sola meta e un solo principio: conoscere sé stessi e diventare simili agli dèi». Lo scriveva l'imperatore Giuliano, alla fine dell'era antica. Parole che appaiono remote, misteriche, quasi stravaganti, in questo tempo liquido e cinico, in cui anche il discorso filosofico e culturale, sempre più caotico, si trasforma spesso in chiacchiera vuota, e la religione rischia di esaurirsi in moralismi e apparati rituali. Parole che dovrebbe sempre ricordarsi chiunque persegua una qualche ricerca interiore e di senso, o che nutra un interesse sincero verso ogni forma di autentica spiritualità.

Giuliano venne chiamato "l'Apostata", ma in realtà il suo messaggio, in profondità, coincideva con quello del cristianesimo, con l'appello di Gesù al distacco, alla rinuncia di sé – dell'ego, diremmo oggi, – unico modo per riscoprire "l'uomo interiore" di cui parlava già Platone, e quindi «la somiglianza con Dio, fino alla comunione con Lui, luce nella luce, spirito nello spirito».

Lo scrive Marco Vannini, nell'introduzione del suo ultimo libro, edito da Lindau, Beati pauperes spinitu. La sua ennesima meditazione sul pensiero di Meister Eckhart, di cui ha tradotto le opere, facendoci capire l'importanza e l'attualità di questo straordinario maestro spirituale, teologo e mistico (anche se su queste definizioni ci sarebbe da discutere, e lo faremo). Di mistica, soprattutto cristiana ma non solo, Marco Vannini è il massimo esperto in Italia. Lo dicono i suoi libri, troppi per citarli tutti (da Mistica e filosofia a Storia della mistica occidentale, da La mistica delle grandi religioni a Prego Dio che mi liberi da Dio), così come gli innumerevoli consessi, incontri e seminari in cui nel corso dei decenni è stato invitato a parlare di temi, testi e autori spirituali (da Margherita Porete a Simone Weil, da Taulero a Silesius).

Beati pauperes spiritu ci aiuta a capire il vero significato della prima beatitudine evangelica, quella "povertà" che ha a che vedere con la capacità di rinunciare a tutto, anche a se stessi, come vuole il messaggio di Gesù, che è «liberazione dalle dottrine religiose», «aprendo lo sconfinato orizzonte della libertà dello spirito», regione che, come scriveva Dante, «solo amore e luce ha per confine».

Ecco allora l'idea di affidarci a Marco Vannini per provare a ri-pensare il Natale in un'ottica spirituale. Perché, è quasi inutile ribadirlo, il Natale in Occidente è diventato il luogo (simbolico) di tutte le contraddizioni: l'evento più importante per la vita religiosa di chi crede (insieme alla Pasqua) è anche l'apoteosi del consumo, della dissipazione, con in più l'equivoco del sentimentalismo, di una bontà che rimane in superficie e diventa pura apparenza.

«Indietro non si torna – dice Marco Vannini. - I recuperi non li vedo possibili. Bisognerebbe che ci fosse un salto di qualità. Che il nostro mondo — occidentale, consumistico — andasse incontro a una crisi. Speriamo che non accada, io non me lo auguro di certo, ma come è successo altre volte in passato solo una crisi epocale, economica, sociale, non solo di valori, potrebbe portare a un ritorno verso l'interiorità, verso qualcosa che non dipenda dal benessere esteriore».

In teoria è successo qualcosa del genere con il Covid.

In realtà, come tutti possono vedere, una volta superato il momento più grave, siamo tornati ai raduni oceanici, ai divertimenti di massa. Ribadisco: nessuno auspica carestie e pestilenze. "A peste, fame et bello libera nos Domine", dicevano i nostri antenati ("Liberaci Signore dalla peste, dalla fame e dalla guerra", ndr). Ma solo una crisi radicale potrebbe indurre le masse non a un ritorno al passato, che non serve, ma a "un passaggio di grado", una riscoperta dell'uomo interiore.

Le prediche natalizie si rifugiano spesso nel sentimentalismo. Si è un po' smarrito il senso profondo dell'incarnazione. È rimasta solo la festa.

Il problema è un altro. Un po' d'anni fa – ormai sono due secoli – Kierkegaard diceva che la cristianità si è presa come feste principali il Natale e la Pasqua: il Natale, in cui c'è di mezzo un infante, e la Pasqua, in cui c'è un risorto, ovverosia due persone che è impossibile imitare. Diceva che le chiese hanno completamente messo la sordina alla concreta imitazione del Cristo. Mi sembra un'osservazione interessante.

Non a caso Kierkegaard, che era protestante, faceva affermazioni molto elogiative nei confronti dei cattolici, credo pensando soprattutto agli ordini religiosi del tempo.

Il Natale è sempre stato un po' così. Anche cinquant'anni fa, in un contesto diverso, in una società che non era ancora quella consumistica e scristianizzata dei nostri giorni, era sostanzialmente una festa per bambini.

Basta guardare quale importanza ha assunto quel vecchio signore vestito di rosso, con le renne e la slitta, Babbo Natale, che con Gesù non c'entra proprio niente. Gli aspetti legati alla festa pagana - senza offesa per nessuno - ci sono sempre stati. D'altra parte il Natale è nato come festa pagana, la celebrazione del Sol Invictus il solstizio, il giorno in cui il sole raggiunge il punto più basso ma poi "rinasce" e riprende vigore. La Chiesa decise di fissare in quel giorno la nascita di Gesù, di cui in realtà non sappiamo nulla.

Sono decenni che lei parla di mistica in un modo che affascina le persone "in ricerca", non credenti compresi. La mistica può essere una risposta al bisogno diffuso, ma confuso, di spiritualità del mondo contemporaneo?

La risposta è facile. Anche se non mi stancherò mai di dire che bisognerebbe evitare il termine mistica, o per lo meno dargli subito il senso che secondo me è corretto: mistica in realtà vuol dire riflessione profonda. Non è una dimensione particolare, di carattere eccezionale. Io sostengo che mistica è la stessa cosa di filosofia. La filosofia, dice Platone, che se ne intendeva, è esercitarsi a morire", è distacco, se è una cosa seria. Quella che noi chiamiamo mistica è anch'essa un esercitarsi a morire, a dimenticare l'egoità, l'interesse personale. Una riflessione vera, profonda; non determinata e non viziata dai legami dell'ego, che sono molteplici e non sono solo quelli economici e del potere, ma quelli dell'amor sui, l'amore di se stessi.

Nell'immaginazione popolare, la mistica è legata a una vita di rinuncia e solitudine, se non proprio di eremitaggio. In questo senso non c'è nulla di più lontano dal modo in cui pensa e vive l'uomo moderno.

In realtà la mistica non è affatto qualcosa di eccezionale, o per la quale ci vogliono delle tecniche o delle condizioni particolari. Assolutamente no. Il mio autore prediletto, Meister Eckhart, è un filosofo in piena regola. Oggi in Germania ci sono studiosi che dicono: basta chiamarlo mistico! Questa definizione non gli rende ragione, perché lo inserisce in un ambito con cui lui non c'entra affatto, ad esempio il mondo delle sante estatiche, che io rispetto profondamente, ma che sono un'altra cosa. Non posso imitare, neanche se mi sforzo, le estasi di santa Chiara da Montefalco o di santa Teresa, ma ciascun essere umano, uomo o donna, "libero o schiavo" può e deve esercitare quella riflessione che prima di tutto è volta all'obbedienza del precetto dell'Apollo deIfico: conosci te stesso.

Che c'entra poco o nulla con la psicologia moderna.

Io mi permetto di esercitare spesso una certa polemica nei confronti di tante tendenze della psicologia moderna. Lo dico con tutto il rispetto per gli studiosi: qui non ci siamo, perché non si va verso il vero proföndo, quel “fondo dell'anima” nel quale possiamo trovare noi stessi, ciò che davvero siamo. C'è un'altra cosa che ripeto spesso – purtroppo il mio repertorio è limitato – quel passo del De consolatione philosophiae di Boezio, quando in carcere si presenta la Filosofia nelle vesti di una veneranda matrona egli dice: "So bene qual è la causa del tuo male, tu non sai più chi sei". Questo è il dramma, la tragedia, il problema di tutti noi, del nostro mondo: non sapere più chi siamo.

Il fatto è che, parlando di mistica, si parla di un mistero profondissimo, della possibilità di trovare Dio in se stessi, di cercare l'unione con lo Spirito, cose che, per chi vive nella civiltà contemporanea e ci sta pure bene, appare come qualcosa di estremamente lontano e misterioso.

Noi, rispetto a un paio di secoli fa, viviamo una condizione estremamente diffusa, quella che Hölderlin chiamava "il tempo della mancanza", del bisogno, in cui è andata in crisi l'immagine tradizionale di Dio. Questa è la differenza enorme che c'è tra noi e i grandi del passato, senza bisogno di arrivare al Medioevo, a Dante o Meister Eckhart.

Viviamo un tempo molto difficile, per molti versi bruttissimo, ma per altri anche bellissimo. Diceva Simone Weil: "Non potresti desiderare di vivere in un'epoca migliore della nostra, in cui si è perduto tutto». Paradossalmente questa "povertà", questo spogliamento, diciamo pure questa "morte di Dio", anche se è un'espressione un po' abusata, può essere interpretata anche come una liberazione da immagini transitorie e superstizioni. Non a caso, come è noto, Meister Eckhart prega Dio che lo liberi da Dio. Non è una cosa semplice. È un passaggio anche abbastanza doloroso, questo attraversare l'assenza.

È anche pericoloso.

Ai nostri giorni è molto diffuso parlare di nichilismo. C'è un grande autore anonimo del Trecento inglese che ci ha lasciato il libro La nube della non conoscenza, bellissimo testo spirituale, in cui c'è questa frase meravigliosa: "Quello che l'uomo esteriore chiama nulla, l'uomo interiore chiama tutto". L'uomo esteriore definisce il nulla con orrore, come cosa estremamente negativa, per l'uomo interiore invece si tratta di una cosa positiva. Sono espressioni di origine greca, ma poi anche cristiana: uomo esteriore è quello che vive soprattutto la vita della sensazione, volto al mondo esterno, al possesso, mentre l'uomo interiore è l'uomo spirituale. Per l'uomo interiore il nulla si configura come luce, pura luce, una grandissima assenza, che non ha oggetto, in cui non c'è dentro nulla, ma che è la suprema presenza.

Ma come andare al di là dell'ego, e raggiungere questo nulla-tutto, senza utilizzare qualche strumento, che siano le tecniche di meditazione o la pratica della rinuncia?

Ribadisco, ma provo a ripeterlo in altro modo: secondo me si tratta semplicemente di esercitare profonda riflessione, il pensiero. Pascalianamente direi che l'unica cosa che si richiede è l'onestà. La riflessione onesta, quella che a ogni essere umano è possibile. Lo dirò con le parole di Simone Weil: riconoscere che è sempre relativo, parziale - non voglio dire falso - tutto ciò a cui noi di volta in volta siamo tentati di dare valore assoluto. Non è in nostro potere acchiappare l'assoluto. Io aborro le espressioni tipo "esperienza del divino" o "conoscenza di Dio". Ma è in nostro potere rifiutare il nostro consenso a ciò che il divino assoluto non è. Questa è l'opera del distacco, un'operazione tanto intellettuale quanto morale. Io non insegnerei mai né le tecniche meditative né le opere di penitenza, che rischiano di diventare un fine in se; ma insegnerei ad essere onesti, a vivere onestamente, riconoscendo in interiore homine come stanno le cose. Ne siamo capaci tutti.

Il concetto cardine è quello del distacco.

Il distacco è la parola chiave della filosofia. Leggiamo Plotino: c'è una sola cosa da fare, áfele pánta, togli via tutto. Meister Eckhart in un suo sermone dice: "Quando parlo, dico sempre le stesse cose, sono solito parlare del distacco". Certo, poi spiega come l'anima umana sia capace del Divino, ma la prima cosa è quella. Le tecniche meditative paradossalmente tutto fanno fuorché esercitare o favorire il distacco.

Perché è così importante comprendere cosa significa "beati pauperes spiritu"?

Il mio libro parte dall'interpretazione del versetto evangelico, la prima delle beatitudini. Che suona in un modo in Matteo e in un altro in Luca. Luca dice: "Beati i poveri". E questo non ci dà problemi, è un elogio evangelico della povertà in contrapposizione alla ricchezza. Ma se si dice, come in Matteo, "beati pauperes spiritu, la parola spirito ci complica la vita. Purtroppo nei secoli ha prevalso una traduzione e quindi un'interpretazione che sembrava favorire la semplicità, e in modo più malizioso la stupidità, gli "ignoranti", quelli che sanno poco, i semplici. Il che non è giusto. Spirito, sia nell'ebraico che nel greco, ha sempre un valore positivo. Dire che sono beati quelli che ne hanno poco, non mi sembra sensato. Questa interpretazione aveva anche un fine pastorale, doveva avvalorare il compito dei sacerdoti e del clero a beneficio del popolo. Ma se noi, invece di tradurre "beati i poveri di spirito", diciamo "beati i poveri nello spirito", cosa permessa dal greco, ecco che tutto cambia. Certo, è un'interpretazione anche questa. Significa: beati quelli che, essendo nello spirito, hanno la vera povertà. È quello che dice Meister Eckhart nel famoso sermone 52, che è il più paradossale, ardito, eretico di tutti gli ereticissimi sermoni di Eckhart. Se uno lo legge rimane sulle prime sconcertato, perché si parla dell'eternità dell'uomo, del vero io che è eterno, che è e sempre sarà. Di questa radicalità lui era consapevole e lo scriveva: lo capiranno solo quelli che sono la cosa stessa, coloro per i quali non c'è un divino come alterità, ma è già qualcosa di presente.

Ed eccoci tornati al distacco.

Beati i poveri nello spirito ci dice che il valore della povertà sta nel distacco. Non si tratta di beni esteriori, di essere senza soldi, come sostenevano alcune correnti (ad esempio i francescani), ma si tratta di essere assolutamente distaccati: il vero povero è quello che niente vuole, niente sa, niente ha. Il triplice nulla. Il "nulla volere" è la rinuncia alla propria egoità come volontà. Il rimettersi alla volontà di Dio, a ciò che la necessità ti dice. Il "niente sapere" è il più duro e il più bello, perché è la rinuncia alla pretesa di saperi "forti". Non si tratta di non sapere che ore sono, possiamo conoscere la morfologia delle piante o l'anatomia umana, ma non sappiamo niente sulla realtà di Dio e dell'uomo. Il "niente avere" non va inteso in senso economico, ma di non avere il senso di appropriazione. Una sorta di totale spoliazione. L'uomo così povero è nello spirito. E allora ci siamo, il gioco è fatto: lo spirito è tale sia con la s minuscola che maiuscola. Se sei nello spirito sei con Dio, perché Dio è Spirito. Sei uno con Dio.