Atopia di un pensiero. Una monografia su Marco Vannini

Sezione: 

Crispino Sanfilippo, in: <ho theològos>, XXXIX, 1/2021 pp. 129-143

Sommario

La lettura del volume di Roberto Schiavolin sul pensiero di Marco Vannini, è stata foriera di stimoli per l’approfondimento e il confronto, a partire dalla mistica, con la filosofia tardoantica che, soprattutto in alcuni pensatori, ha alternato il dialogo tra religione e ragione, tra paganesimo e cristianesimo. A partire dalla monografia di Schiavolin, questa “nota” si approccia a porre in dialogo il pensiero di Vannini con quell’ambito speculativo del tardoantico in cui diversi pensatori, tra pagani e cristiani, hanno cercato il “contatto” con il divino nel contesto speculativo neoplatonico, oracolare e quindi misteriosofico. Sebbene la filosofia mistica di Vannini si muova a partire dal pensiero di Meister Eckhart, pur nella sua sintonia con diverse personalità della storia delle idee risente comunque, a mio parere, di evidenti richiami neoplatonici che, a partire da questo scritto, si cercherà di far emergere più approfonditamente.

Parole-chiave: Mistica, religione, esistenza, divinizzazione, simbolo.

Summary

The reading of the volume of Roberto Schiavolin about the thought of Marco Vannini has been a source of incentives for deepening and comparison, starting from mysticism, with the late antique philosophy that, especially in some thinkers, alternated the dialogue between religion and reason, between paganism and Christianity. Starting from Schiavolin’’s monograph, this “note” comes close to making Vannini’s thought dialogue with that speculative sphere of late antiquity in which various thinkers, even pagan and Christian, sought “contact” with the divine in a neo-Platonic speculative sphere, oracular and therefore mysterious. Vannini’s mystical philosophy, even though it comes from Meister Eckhart’s thought, in spite of its syntony with various personalities of the history of ideas, anyway suffers, in my opinion, from evident neoplatonic references that, starting from this paper, we will try to make it emerged more deeply.

Keywords: Mystic, religion, existence, divinization, symbol.


Il volume di Roberto Schiavolin[1] si inserisce nel grande panorama di studi sulla mistica, offrendo una ricostruzione di vasto respiro del pensiero di Marco Vannini, filosofo fiorentino contemporaneo, con riferimento al tema centrale della sua riflessione, individuato nella natura e nella complessa fenomenologia della mistica, vista nei peculiari rapporti con la speculazione filosofica.

Nel riferire del pregevole lavoro dell’Autore come in una recensione, ponendomi in un ideale dialogo tanto con le posizioni di Vannini quanto con le prospettive di lettura che di queste offre Schiavolin, tenterò di de-lineare alcune osservazioni sulla “filosofia mistica” e sulla “filosofia della mistica” di Vannini, tentandone un accostamento concettuale con taluni aspetti del neoplatonismo pagano e della filosofia cristiana della Tarda Antichità. Seguendo il tratto di Schiavolin, dunque, proverò a guardare al pensiero di Vannini con una lente mutuata dalla filosofia tardoantica, con riferimento alla questione della delineazione dei rapporti tra la filosofia e il culto, tra paganesimo e cristianesimo, che ho avuto modo di affrontare in un mio recente lavoro.[2] Inquadro questo particolare orizzonte filosofico-religioso, storico e speculativo, come segnato da un pensiero sospeso tra un “prima” e un “poi” rispetto alla Rivelazione cristiana, riguardo alla quale, circa la configurazione dei rapporti dell’uomo con il divino, per quanto concerne il “prima” ne ha costituito i prodromi teoretici, misteriosofici e anche cultuali, se si guarda propriamente all’aspetto simbolico, che si rivela determinante in questo ambito di questioni; e che, per quanto riguarda il “poi”, ha mostrato di avere una propria traditio nell’ambito specifico di una “filosofia del culto”.

Per una reductio

Nel ricostruire gli snodi e gli sviluppi del pensiero di Marco Vannini, il saggio di Schiavolin tiene presente un aspetto ricorrente che ne caratterizza la configurazione: il costante riferimento a Meister Eckhart (1260-1327/1328), eminente rappresentante della cosiddetta “mistica renana”. A Eckhart Vannini ha dedicato una parte consistente dei suoi studi, con traduzioni di opere, saggi introduttivi, commenti vari e specifiche monografie. Schiavolin si impegna a mostrare come il pensiero di Vannini si ispiri a quello del celebre domenicano tedesco in particolar modo assumendo il tema del “distacco” come cifra fondamentale del proprio impianto speculativo,[3] ma anche come esso si sviluppi in modo autonomo e in costante confronto dialogico con il pensiero di matrice platonica. Schiavolin mostra anche come un termine di riferimento privilegiato di Vannini siano gli scritti di Simone Weil, alla quale egli ha dedicato grande attenzione nell’arco della sua produzione. Tali riferimenti permettono anche di comprendere come il pensiero del filosofo fiorentino, nella sua riflessione speculativa sulla natura della mistica, pur intendendo restare incardinato su assunti e aspetti centrali del cristianesimo e del suo messaggio evangelico, prenda le distanze dall’oggettivismo teologico ed esegetico della Scrittura, un aspetto assai criticato da Vannini, come Schiavolin mette in evidenza. Ritengo che pensare con la mistica sia proprio il proiettarsi direttamente e totalmente verso una meta che necessita non tanto di essere raggiunta e dimostrata quanto di essere incontrata; mi sembra voglia dire uscire dall’oggettivazione spirituale e applicare una razionalità che aiuti il desiderio del divino, lasciando poi che l’incontro avvenga, possibilmente,[4] fuori dagli schemi propri del pensiero speculativo.

Nella Presentazione Roberto Celada Ballanti definisce il libro un «colto, informato e dedicato profilo» di Marco Vannini (p. 5) e, facendo da antifona ai contenuti del volume, traccia alcune linee di lettura del pensiero del filosofo toscano, con il quale lo stesso Celada Ballanti si è trovato a dialogare. Egli afferma: «Vannini ha potuto recare nel nostro tempo, sull’aporetica e tragica religiosità che lo segna, un giudizio forte e segnato della perenne inattualità che qualifica la mistica, destinata a quella stessa atopia propria della filosofia, del demone socratico, anch’esso heimatlos» (p. 7). Vorrei qui sottolineare i tratti dell’“inattualità” e dell’“atopia”, i quali segnano il peculiare legame che la mistica mostra con la filosofia. La mistica, come la più radicale filosofia, “non ha luogo”, ma è in chi la assume come la propria esperienza e “ragione” di vita: mistica e filosofia sono perennemente inattuali e atopiche, tanto fuori dal tempo, dallo spazio e dall’ordinario, quanto perennemente dentro la più profonda esperienza vissuta dell’uomo. Un ossimoro che fa da cornice al pensiero di Vannini e che l’Autore del testo sottolinea costantemente.[5]

Uno sguardo al presente

Da un complesso molteplice di aspetti e risvolti Schiavolin si muove verso uno zoccolo duro che costituisce l’elemento “semplice” del pensiero di Vannini: l’istanza dell’intimo legame con Dio, che esula da una religione positiva e si nutre piuttosto di elementi che traggono dalla speculazione – direi neoplatonica, oltre che eckhartiana – la loro vitalità. Schiavolin, che si mantiene oggettivo e critico nei confronti del filosofo toscano, non manca di mettere in evidenza anche i tratti problematici che segnano il suo pensiero.

Il primo capitolo, Zeitgeist, contiene nel suo titolo un’indicazione precisa: lo “spirito dei tempi”. Si tratta di un’ampia introduzione che si sofferma su aspetti salienti della situazione attuale e passata in merito al rapporto tra l’uomo e il divino, alla filosofia delle religioni, allo scenario politico e sociale in cui esse si manifestano, ad un umanesimo in crisi. Di tale situazione l’Autore descrive le rispettive mutazioni «dapprima in una dimensione oggettiva, volta ad analizzare lo status della religione nello Zeitgeist della postmodernità [...]», per poi focalizzare l’attenzione «sulla dimensione spirituale, aspetto soggettivo della religione per cui, per certi versi, costituisce il vertice qualitativo» (p. 13). Schiavolin da un lato mette in evidenza la crisi religiosa oggi presente in ogni ambito della società, derivante dalla codificazione del cristianesimo che, presente nei modi di vivere dei singoli, ha garantito in tal modo un inquadramento dei singoli che tuttavia si perdono in seno alla comunità; dall’altro lato sottolinea come nell’aspetto soggettivo l’esperienza religiosa vada al di là dei legami sociali, sviluppandosi a partire dalla singola coscienza e sfociando nel mistero della bellezza, della beatitudine, o perfino, forse, nell’unione inconfusa con la divinità. Tra dimensione oggettiva e dimensione soggettiva viene collocata la mistica, quale loro trait d’union. All’oggettivismo spigoloso e al soggettivismo libero, la mistica risponde con una razionalizzazione dell’indicibile, una sintesi tra termini opposti che permette, fuori da una logica formale, di andare in deroga al principio di non contraddizione. Soffermandosi sull’etimologia del termine “mistica”, Schiavolin spiega come proprio nel suo utilizzo e – con Vannini – nella sua filosofia, si riescano ad accordare aspetti apparentemente inconciliabili. Il lettore del volume in questione si accorgerà quanto quest’ultimo aspetto sia presente nel pensiero di Marco Vannini.

Lo Zeitgeist viene descritto in tre punti, cui corrispondono tre rispettivi paragrafi analiticamente strutturati: La religione; Spiritualità; Mistica. Nel primo paragrafo l’attenzione viene posta sulla “mondanizzazione della salvezza” (cf. p. 15), derivante dalla modernità e dalla sua critica alla dimensione religiosa, che entra sempre più in crisi radicandosi nell’immanenza e spingendo ad un cambiamento radicale di prospettiva nell’intendere la religione. In questo caso, il concetto chiave su cui l’Autore focalizza la sua attenzione è il “post-moderno”, cifra di una crisi religiosa che si manifesta nel primato dell’individuo a discapito dell’universale. È propriamente il momento della critica in cui tutto è in discussione e appare privo di fondamento; il momento in cui non si trovano risposte adeguate a precise domande cruciali, come ad esempio quella sul senso della vita. Le verità sono quindi sottoposte alla critica da parte del soggetto e le tre virtù teologali sono sostituite dall’individualismo per quanto riguarda la fede, dal nichilismo in contrapposizione alla speranza, dall’egolatria nel caso della carità. Citando Vannini, Schiavolin scrive: «Il cristianesimo [...] “non è più religione vera, in quanto non soddisfa le giuste esigenze di verità”» (p. 19), riferendo di una mitologizzazione della religione. A questo proposito l’Autore indica nel pensiero del filosofo toscano il paradigma della critica del mito, a dispetto di quella teologia contemporanea ancorata all’accettazione storica della Rivelazione in maniera fideistica, schierata quindi a difesa del mito. Ciò porta Schiavolin a trovare in Vannini anche il maggiore esponente di una visione spiritualista di Dio, secondo quanto leggiamo in Gv 4,24. La dimensione spirituale di Vannini è vista proprio come un’apertura alla Grazia divina.

Il capitolo prosegue con dei riferimenti al simbolo, al mito e al rito nell’ambito della cultura postmoderna. Si tratta di aspetti della religiosità che rivestono un’importanza particolare ma che, proprio nella crisi in atto, sono dissacrati dalla cultura dominante. Il pensiero di Vannini mi sembra riagganciarsi proprio a questi aspetti e, considerato l’oggetto principale dello studio di Schiavolin, ritengo utile qualche riferimento essenziale al σύμβολον.

Dico appena che il “simbolo”, in generale, è una medietà, una relazione tra due parti che si cercano e che esso sfugge ad ogni oggettivazione e soggettivazione, altrimenti perderebbe la sua stessa essenza, quella di essere appunto quel tratto di mezzo tra due parti che, unite, costituiscono un intero. Penso che anche il pensiero di Vannini si presti ad essere letto in modo proficuo con riferimento al “simbolo”, e ciò non per una mera sovrapposizione estrinseca; infatti, anche se il simbolo, nella complessità dei suoi aspetti, può presentarsi come consono ad ogni tipologia di pensiero (esso riguarda soprattutto l’ambito filosofico e religioso ad ampio raggio, oltre che linguistico ed estetico), l’indagine che lo riguarda non scade in qualunquismo speculativo,[6] e nel caso specifico di una riflessione sulla mistica vista nei suoi legami con la filosofia, quale è quella di Vannini, proprio il simbolo può essere assunto come il termine privilegiato che restituisce il “rapporto” dell’uomo con il divino. La validità di questa chiave di lettura per confrontarsi con il pensiero di Vannini può essere mostrata con un accostamento di tratti di tale pensiero con quello del filosofo e teologo ispanico-indiano Raimon Panikkar, che Schiavolin cita più volte, riferendo della sua visione “cosmoteandrica” della realtà. Assieme a Giovanni Vannucci e ad Henry Le Saux, Panikkar è definito da Schiavolin come una personalità borderline e, nel quadro generale del suo pensiero, mi sento di condividere questa considerazione. Il modo in cui Panikkar tratta del simbolo mostra esattamente tale tipo di personalità, posta al limite della relazione tra essere-parlare-pensare.[7] Una relazione che proprio nel simbolo può trovare espressione. Se si guarda al percorso speculativo di Vannini, in cui non solo la filosofia si intreccia con la mistica ma anche con l’esistenza del singolo, mi pare che l’accostamento sia possibile e che lo stesso simbolo, che strutturalmente non può essere in senso proprio oggetto di definizione, possa essere considerato appunto come borderline, associabile quindi alla stessa mistica. Si tratta di una mia ipotesi, generata da un percorso di letture sulla divinizzazione che appare intrinsecamente legata dal simbolo. Quest’ultimo può essere qualsiasi “cosa” e quindi un “relativo” se lo si considera dal punto di vista della realtà oggettiva. Ma il problema sta proprio nell’istintivo errore di oggettivare il simbolo, di rappresentarcelo;[8] esso può essere visibile, ma deve rimandare altrove, e quindi non indica quello che noi immediatamente pensiamo. La questione del nesso tra mistica e filosofia, come è affrontata da Vannini, mi riconduce, appunto, al rimando ad un “altrove”, che si può vivere hic et nunc solo nella dimensione del “distacco” e dell’“abbandono”, su cui Schiavolin insiste con particolare attenzione.

Il paragrafo sulla spiritualità, delineando l’homo religiosus attuale come caratterizzato da un lato da un rifiuto del legalismo e del moralismo ecclesiastico e dall’altro dal medesimo rifiuto del materialismo e del riduzionismo scientista, desideroso quindi di ritirarsi in una personale dimensione spirituale e di cercare il sacro nelle sue manifestazioni cosmiche, indica nell’individualismo, nel sincretismo, nel panteismo e nel tecnicismo le caratteristiche di una «Weltanschaung tipicamente postmoderna» (p. 31). L’analisi di queste caratteristiche porta l’Autore a soffermarsi su un lemma molto utilizzato, fin quasi ad essere oggi inflazionato, “neopaganesimo”, elencandone le diverse declinazioni.

La parte dedicata alla mistica è quella che illustra in maniera generale, necessariamente propedeutica alla disamina del pensiero di Vannini, un ampio quadro sull’«approccio filosofico alla dimensione mistica dell’esistenza» (p. 44). Sembrerebbe che nell’accostamento di “mistica” ed “esistenza” vi sia un immediato carattere di contraddittorietà, come se in quel contatto simultaneamente entrambe si elidessero; come se, in altre parole, la mistica non potesse inerire all’esistenza intesa come attuazione dell’essenza. Eppure, proprio nell’ambito della mistica, forse il principio di contraddizione viene sempre scardinato e derogato; la mistica infatti non è altra cosa rispetto alla filosofia stessa e all’esistenza ma, pur puntando alla trascendenza, ha un carattere di immanenza propriamente simbolica, autoponentesi in una sorta di “terra di confine” tra l’esistenza stessa e il desiderio di divinizzazione. È lì che andrebbe compresa.[9]

Schiavolin mostra come la dimensione mistica sia cambiata nel corso della storia delle idee, passando da una visione che annulla la distinzione ontologica tra creatura e Creatore ad una volta invece a bilanciare i due estremi. In effetti lo studioso triestino, rimandando a Vannini, mostra come la mistica in generale, non indichi un’assenza di pensiero né una mancanza di percezione del reale. Alla mistica si arriva piuttosto per una sorta di mancanza ideologica e sempre per una crisi interna alle religioni.[10] Una crisi che la storia delle idee ha già registrato a proposito dell’incontro tra paganesimo e cristianesimo in epoca tardoantica. Quando poco sopra indicavo una traditio propria del mondo pagano intendevo dire proprio una sua originalità nel campo filosofico e religioso che si trova nel neoplatonismo considerato come una religione.[11] Un’analogia rispetto a quanto appena detto si può riscontrare nel ruolo che ha il teurgo in Giamblico. La “teurgia” è propriamente l’azione del divino che incontra l’umano, una volta sollecitato dalle preghiere, senza alcuna costrizione; il teurgo è proprio colui il quale presiede al rito della divinizzazione dell’uomo, colui il quale assume il ruolo di medium. Egli deve necessariamente possedere la filosofia, come scienza propedeutica a quell’incontro che risulterà essere “enthusiasmante”, un vero e proprio ingresso reciproco dall’umano al divino e viceversa. Il teurgo è un sapiente mistico, che si basa sulla conoscenza salvo poi superarla perché, una volta in Dio, ha bisogno delle sue ragioni per potere divinizzarsi.[12]

Il paragrafo sulla mistica continua illustrando degli aspetti semantici, storici e speculativi, che schiudono al lettore un’ampia visione dell’argomento, rimandando – ed è questa una caratteristica di pregio del volume – attraverso un nutrito e calibrato apparato critico di note bibliografiche ed esplicative, ad altre letture per l’approfondimento. Con riferimento al pensiero di Hegel, la cui dialettica è a suo modo fondativa della speculazione di Vannini, l’Autore conclude il capitolo associando mistica e filosofia, le quali si aiutano reciprocamente a «comprendere e realizzare integralmente le realtà più elevate ed i misteri più profondi dell’esistenza umana» (p. 57). Viene distinta così una “filosofia mistica” da una “filosofia della mistica”, ovvero una filosofia che per astrazione raggiunge i medesimi risultati della contemplazione e una filosofia che specula analiticamente su ciò che è proprio della mistica. Il capitolo si conclude con una chiosa che indica in Vannini colui il quale tenta di riportare la mistica alla sua funzione di vero fondamento del cristianesimo.

Istantanea

Il secondo capitolo presenta la figura di Marco Vannini. Quest’ultimo viene innanzitutto indicato come traduttore e commentatore di Eckhart e di altre importanti figure mistiche; come storico della spiritualità, essendo autore e curatore di studi specifici su tale argomento; come filosofo e critico della religione in generale e del cristianesimo in particolare. Schiavolin prospetta varie considerazioni introduttive con l’intenzione di enucleare alcuni punti principali ed essenziali del pensiero di Vannini, con il puntuale riferimento alla produzione bibliografica – assai vasta – e con rimando alle critiche che il pensiero del filosofo toscano continua a suscitare.

Nel delineare un ampio affresco della produzione di Vannini, Schiavolin ne mostra anche la ricezione da parte di vari autori, i quali vi si sono rapportati in un proficuo dialogo critico. Oltre ai già citati Giovanni Vannucci, Henry Le Saux, Raimon Panikkar, riferisce non solo di altri filosofi come Gianni Vattimo, Massimo Cacciari, o di teologi come Piero Coda, Bruno Forte, Vito Mancuso, Gianni Baget Bozzo, ma nomina anche studiosi che a vario titolo hanno letto e recensito le opere di Vannini o che, comunque, lo hanno incontrato nel corso dei loro studi e se ne sono interessati in vari modi e in diverse prospettive. La penna di Vannini, infatti, ci dice Schiavolin, è scorsa non solo per saggi specialistici, ma anche per la stesura di articoli su quotidiani e riviste. Si tratta, insomma, di un autore che, oltre a rivolgersi a un ristretto gruppo di specialisti, intende condividere il suo pensiero con un più ampio pubblico di lettori interessati in vari modi al tema della mistica nei suoi vari aspetti e risvolti. Il volume offre dunque un’ottima introduzione di vasto respiro alle opere di Vannini, ma anche alla loro ricezione e alle principali letture critiche che queste hanno suscitato. Schiavolin delinea una descrizione sistematica della ricca bibliografia di Vannini,[13] procedendo per grandi temi di fondo. Ne riporto qui soltanto i punti apicali: metafisica e teologia; logica; antropologia; etica; spiritualità; escatologia; scrittura ed esegesi; ecclesiologia e religioni (cf. pp. 84-86).

Schiavolin mostra che Vannini concepisce la mistica come intrinsecamente caratterizzata da un movimento soggettivo, da una continua azione che porta ad un incontro con il divino: «La determinazione è quindi risolvibile in una prospettiva non tanto statica quanto dinamica, grazie a quella coincidentia oppositorum in cui “è possibile cogliere qui e ora l’identità di umano e divino – identità nella differenza, nella lontananza estrema”» (p. 87). Vengono dunque passate in rassegna, sotto una lente critica, le varie valutazioni su Vannini. L’Autore, a questo proposito, mostrando come diverse letture critiche si concentrino su determinate opere del pensatore toscano, invita invece a leggere il corpus vanniniano nella sua globalità, così da poter offrire un giudizio completo e unitario. È quanto lui stesso si propone di fare nel suo volume. Un nodo cruciale della questione della mistica, che emerge dal confronto del pensiero di Vannini con le prospettive dei suoi recensori, è per Schiavolin quello di trovare un tipo di mistica diversa, non tradizionale, che dialoga con la realtà e con la storia delle idee. Insomma, una mistica non aleatoria ma che fa parte del vissuto oltre che della dimensione intellettuale del pensiero. Potrebbe essere utile un riferimento ancora a Festugière – Schiavolin mi risponderà –, il quale sostiene che una mente speculativa «tende ad unirsi ad un Principio che sia, essenzialmente ed eminentemente, l’Essere (Der Seiende). L’essere (das Sein) manifesta la propria carenza in tutte le cose del mondo, in quanto mutevoli e materiali; ciò conduce a ricercare un Essere che trascenda tutto l’ordine della materia, un principio ipercosmico. [...] Dalla determinazione di tale Principio dipendono a loro volta i mezzi impiegati per il suo conseguimento».[14]

Convergenze

La mia domanda è se non sia possibile far rientrare nell’ambito riferito dall’eminente studioso domenicano il focus del terzo capitolo del libro di Schiavolin: Mistica e filosofia. Tema centrale è la divinizzazione, un argomento che ha le sue radici nella relazione tra l’umano e il divino, la quale va oltre le categorie dell’estasi, almeno per quanto queste ultime vengono bollate come extrafilosofiche. Utilizzando il tema del “distacco” mi sembra che si possa dare una risposta affermativa al mio quesito. Vannini infatti afferma che l’amore è intelligenza onnicomprensiva e che l’intelligenza stessa risponde alla volontà assoluta di acquisire la verità. «Perciò il pensiero è distacco in quanto scioglie ogni particolare, vedendone la determinatezza; l’amore è distacco in quanto riconosce la natura appropriativa, egoistica e meschina di ogni legame; entrambi così – i due occhi dell’anima, nella bellissima immagine di origine appunto neoplatonica – fanno lo sguardo àpolos, “semplice”, un unico Uno».[15] Si tratta quindi della classica operazione di “semplificazione”, che caratterizza dialetticamente l’incedere del pensiero platonico in generale, e proprio l’ambito dialettico per Vannini è fondamentale nella risoluzione di una mistica che non è altra cosa dalla speculazione e dalla religione, ma che è insieme filosofica e religiosa, nel senso di una sua caratterizzazione di ricerca non di una conoscenza del sacro ma di una divinizzazione dell’uomo.

Fatte le dovute distinzioni, in questo frangente vorrei imbastire ancora una trama di dialogo e di confronto, nell’universo vanniniano, tra il pensare il divino in un contesto di fede ragionata in vista di una completa assimilazione ad esso da parte dell’uomo, e la fattiva unione mistica con il divino stesso, alla quale non sempre viene assegnato un posto comodo nel panorama della storia delle idee. Al netto di ogni inclinazione religiosa, e non fa eccezione il pensiero pagano antico e tardoantico,[16] la relazione tra filosofia e mistica ha avuto non facili punti di incontro, laddove non si sono registrate delle vere e proprie incompatibilità. Ciò che tuttavia riscontriamo nei testi di Vannini è che l’accezione negativa di “mistica”, relativa all’etimologia propria del lemma risalente a μύω e ai suoi derivati, può attendere ad un significato positivo che sfocia nella divinizzazione; oltre alla possibilità teoretica, cui il pensiero di Marco Vannini introduce, c’è l’opzione cultica, verso la quale, sebbene il filosofo toscano non vi inclini particolarmente, possiamo ritrovarci una volta entrati nelle anse del suo pensiero.

Dal volume di Schiavolin e dalla bibliografia di Vannini emerge un pensatore prima di tutto – come detto supra – traduttore e commentatore di Eckhart, che sviluppa poi un pensiero personale fondato proprio sulla dimensione mistica, anzi, direi misteriosofica.[17] Ma se da un lato egli prende le mosse dal grande pensatore domenicano, dall’altro ricorda proprio la grande dicotomia in atto in seno al neoplatonismo tardoantico, nella quale pensatori come i citati Plotino e Giamblico, Porfirio, nonché Proclo, Damascio e altri ancora, hanno anche teorizzato e praticato la relazione dell’uomo con Dio. Dico “praticato” per indicare che nel loro pensare il divino c’è una forma di teorizzazione che da un lato è prettamente teoretica, appartenente quindi alla sfera della conoscenza, che vede soltanto nel filosofo il vero uomo pio, e dall’altro invece, la medesima forma di teorizzazione guarda ad una riconsiderazione dell’uomo non soltanto in chiave squisitamente razionale ma piuttosto nella sua complessità di anima e corpo, la quale giunge al divino esattamente nella sua totalità. La misteriosofia tardoantica, con il De mysteriis di Giamblico, gli Oracoli Caldaici e le speculazioni dei primi neoplatonici, in primis Plotino, costituiscono il crinale sul quale provo a stare in equilibrio guardando a Vannini, riflettendo proprio sul senso di una mistica che s’incarna nell’esistenza dell’uomo.

A proposito del cristianesimo e del mistero dell’Incarnazione, Schiavolin distingue tra figliolanza sostanziale e figliolanza adottiva, incarnazione, appunto, e inabitazione. La prima è per natura, mentre la seconda per grazia. La loro possibilità di realizzazione avviene per il legame d’amore garantito dallo Spirito Santo.[18] «Il filosofo toscano considera in senso fortemente realistico questa inabitazione di Cristo nel cuore del credente, e la pone a fondamento della sua interpretazione del fenomeno mistico» (p. 93). È questa la sezione del libro che entra pienamente nel merito dei nuclei fondamentali del pensiero del Vannini. L’Autore elenca tre punti basilari della sua trama speculativa: «1) l’assoluta trascendenza di Dio; 2) la reciproca interconnessione della realtà grazie alla mediazione del demone Eros; 3) il percorso contemplativo costituito al contempo da distacco (da un bene inferiore) e amore (per un bene superiore), fino al raggiungimento della Bellezza in sé, che consentirà poi di condurre una vita nobile e virtuosa e, soprattutto, di generare il Logos» (p. 94).

Vi sono alcuni elementi che Schiavolin sottolinea in modo particolare, come ad esempio il passaggio dalla molteplicità all’Uno e alla sua ineffabilità e di conseguenza il “distacco” da ogni cosa, che permette di ricongiungersi all’Uno stesso. Un distacco che non è disinteresse ma piena consapevolezza e libertà. Non disprezzo alla maniera plotiniana, ma pienezza e partecipazione alla vita nella libertà di un percorso che inesorabilmente incede verso Dio.[19] In quest’ultimo aspetto Schiavolin indica l’intimo legame di Vannini con Simone Weil. La filosofia mistica di Vannini si muove parallelamente al movimento dello spirito, che agisce tra il divino e l’umano, tra trascendenza e immanenza, tra fluxus e refluxus. In ciò vi è un rinvio anche alla teologia renana, più volte ripresa da Schiavolin, la quale segna profondamente il pensiero di Vannini; ciò si evince in particolar modo dall’affermazione della relazione della creatura con la propria causa, il Creatore. In questo senso il molteplice, spiega l’Autore, si congiunge all’Uno, e ciò è possibile solo in virtù del distacco, la cui finalità «sarà proprio quella di scindere e sciogliere tutti i vari contenuti mentali, allo scopo di eliminare la schiavitù che inesorabilmente essi procurano a colui che li trattiene nella propria anima» (p. 104). Schiavolin, dunque, insiste molto sullo stretto rapporto che per Vannini intercorre tra il distacco e lo spirito. Quest’ultimo è inteso in senso filosofico, come una dimensione divina caratterizzata da un unico movimento in cui si distinguono e convergono due direzioni che culminano nella divinizzazione: la forza centripeta del distacco e quella centrifuga dell’amore, che forse sta in drammatico equilibrio tra l’amore per il sapere e quindi di conoscere Dio, e l’amore come tensione verso lo stesso Dio.[20] Questa peculiare prospettiva del pensiero di Vannini, nel suo rapportarsi alla Trinità, al Figlio inteso come intelletto e allo Spirito inteso come amore, potrebbe anche avere dei legami con la filosofia del culto. Guardare a questo aspetto in rapporto al pensiero di Vannini potrebbe essere un argomento di ulteriore approfondimento.[21] In questi meandri Schiavolin mostra di muoversi bene, con una scrittura fluida e dinamica e una comprensione lucida e profonda della materia trattata.

La conclusione del capitolo mostra come nel “distacco” vi sia l’annichilimento dell’uomo con vista sulla semplicità di Dio: si delinea in questo caso una relazione tra un nulla e il semplice. Il distacco di cui parla Vannini, spiega l’Autore, è comunque sempre un processo, un movimento, un’esperienza.

Le considerazioni introduttive del quarto ed ultimo capitolo, Mistica ed esistenza, portano Schiavolin a spaziare nell’universo speculativo di Vannini fino a giungere al confronto con la filosofia orientale, cui il filosofo toscano ha dedicato una notevole parte delle sue energie speculative con riferimento alla mistica. Ciò gli è servito per comprendere e “operare” il “distacco”. La mistica, infatti, è incardinata nell’esistenza, è una viva esperienza, non soltanto un fatto razionale. Schiavolin, nell’articolazione del capitolo in paragrafi, elenca innanzitutto i criteri della relazione tra mistica ed esistenza; essi sono l’unità, ovvero il continuo movimento dialettico tra unità e molteplicità; l’esemplarità, laddove l’uomo trova il fondamento delle proprie azioni nell’Assoluto; l’universalità, elemento essenziale del “distacco”, una sorta di “trascendentale” relativo a Dio, in cui l’uomo trova il criterio del proprio vivere; la razionalità, che accompagna le scelte della volontà. Si tratta di criteri essenziali per una “ragione pratica”, la quale è connessa anche ad alcune disposizioni di fondo, consistenti nell’abbandono, nel disinteresse, nella libertà. L’essere mistico, come spiega Schiavolin con Vannini, non è fuggire dal mondo; è piuttosto rimanere nel mondo e sapersi distaccare da questo, guadagnando così la libertà del ricongiungimento all’Uno, a Dio. Chiudono il capitolo gli effetti: l’equanimità, l’amore, la gioia. Effetti che si ritrovano già nei tratti religiosi della filosofia tardoantica: si pensi alla gioia del teurgo nella divinizzazione; si pensi al concetto di aequitas in Lattanzio, a quel legame di rispetto fra gli uomini che porta alla pietas; e, ancora, si pensi all’amore che muove la dialettica platonica nella sua progressiva ascesa.[22] Sono questi, spiega Schiavolin, effetti di un processo dinamico e di un modus vivendi messi a fuoco da Vannini, che sfociano in uno stato di incontro e di conservazione intima con il divino, dopo l’elaborazione filosofica e mistica.

Per concludere

Riprendendo le fila di tutto il percorso, nelle conclusioni Schiavolin inquadra il pensiero di Vannini come una riflessione che riafferma il valore della mistica in seno al cristianesimo. Un cristianesimo scrostato dall’oggettivismo e dal legalismo; un cristianesimo dinamico, che sappia parlare di Dio all’uomo e che non imprigioni quest’ultimo con Dio, soprattutto in riferimento al problema del male.

Emerge dalle pagine dell’Autore un complesso quadro di come, nella riflessione di Vannini, mistica e filosofia si intreccino tra loro in una intricata rete di relazioni. Il cuore del problema ampiamente sviluppato da quest’ultimo nelle sue opere, sembra essere la questione dell’approccio speculativo propriamente detto alla mistica; questo potrebbe essere un punto di discussione, con prospettive di fondo diverse: la storia delle idee ci insegna che ogni ambito del sapere e del vissuto può essere approcciato filosoficamente, ma in un certo modo anche misticamente; si tratta solo, per dirla con Plotino, di sintonizzarsi su «modo diverso di vedere»;[23] si tratta solo, ancora, di voler capire quanta possibilità c’è per l’uomo di divinizzarsi, di unirsi alla divinità.

Per quanto mi riguarda, considero il pensiero di Marco Vannini inquadrabile nel vasto panorama speculativo della mistica, che ha radici antiche forse quanto il pensiero dell’uomo; con delle particolarità che la curiosità filosofica, assieme ad un desiderio di ascesa non separabile dalla stessa filosofia, spingono lo studioso ad approfondire e a far proprie, quandanche solo per criticarle.


Note:

[1] ⬆︎ R. Schiavolin, Mistica e filosofia nel pensiero di Marco Vannini, Presentazione di R. Celada Ballanti, Edizioni Nerbini, Firenze 2019.

[2] ⬆︎ C. Sanfilippo, Paganesimo e Cristianesimo. Un confronto filosofico nel culto in epoca tardoantica, Presentazione di L. Parisoli, Prefazione di M. Russotto, Aracne editrice, Canterano (RM) 2020.

[3] ⬆︎ Cf. M. Vannini, Lessico mistico, Le Lettere, Firenze 2018, 56-68.

[4] ⬆︎ L’avverbio è voluto. Mi riferisco alla dicotomia tardoantica all’interno del neoplatonismo che vede da un lato Plotino (203–206 - 269–270) con la dialettica dell’ascesa all’Uno e con la sua concezione dell’estasi come momento ultrarazionale; dall’altro a Giamblico (250 ca.–330), con la teurgia come vera e propria azione divina, preceduta da quella filosofica e seguita da quella cultica, cifra della traditio del mondo non-cristiano. L’esito della teurgia così intesa, configurato in termini di εὐσέβεια, supera il momento estatico coinvolgendo l’uomo nella divinizzazione nella sua totalità di anima e corpo e privilegiando il suo incontro con il divino, come un momento che va oltre la teoresi, come un invasamento anche nel corpo, un “enthusiasmo”, nel quale entra il divino. La possibilità cui mi riferisco è proprio nell’oscillazione, ancora, tra l’estasi e l’enthusiasmo, tra l’ammettere come momento mistico la prima piuttosto che il secondo o viceversa. O considerare come mistico l’intero percorso speculativo, che è quello, possibilmente, di un’esistenza. Cf. Plotino, Enneadi, traduzione di R. Radice, Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di G. Reale, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2002, VI 10-11; Giamblico, I misteri egiziani, a cura di A.R. Sodano, Presentazione di G. Girgenti, Bompiani, Milano 2013, III.

[5] ⬆︎ Non solo. Vi è a mio parere anche un carattere di aporeticità che, se vogliamo, comporta una certa fecondità nell’intraprendere l’analisi mistica. Il non-espediente, la non soluzione analitica, non impedisce di continuare ad analizzare una questione ma, piuttosto, invita ad approfondirne lo studio. Ecco perché la mancanza di “attualità” della mistica e della filosofia ha il suo risvolto perenne nella loro applicazione alla vita stessa; ecco perché, nel tentativo di divinizzarsi, l’uomo rivolge le sue energie speculative in un cammino che non solo lo fa uscire da sé nell’estasi ma anche lo fa entrare in Dio, permettendo a questi di entrare a sua volta in lui.

[6] ⬆︎ Luca Parisoli mette in evidenza come i simboli, estrapolati da una corretta argomentazione, che nel suo studio inerisce al discorso deontico, una volta calati nel relativismo culturale causino soltanto fraintendimenti. «L’alternativa non è l’obbligo di scegliere un’identità dogmatica, bensì quella di comprenderli al meglio cercando di cogliere i meccanismi che rendono inevitabile – a dispetto di ogni illusione iperrazionalista ed empiricizzante – la ricerca umana, attraverso i simboli, dell’enigma e dell’abisso». L. Parisoli, Aspetti del simbolismo nella tradizione latina cristiana, in «Schede Medievali» 53 (2015) 298.

[7] ⬆︎ Cf. R. Panikkar, Mito, simbolo, culto, tomo I, Mistero ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2008, 242-253.

[8] ⬆︎ «Se si è dentro all’identità dogmatica, in questo caso cristiano, il nostro sostegno indicibile è percepito come assolutamente reale; se si è all’esterno di tale identità, lo si percepisce come fittizio: il punto inescapabile è che quei fili, qualunque sia il materiale che li componga, ci devono essere, altrimenti non c’è il soggetto umano. Il razionalismo può adombrare l’emblema, giammai eliminarlo, poiché senza simboli non vi sarebbe nessun uomo a desiderare la razionalità». L. Parisoli, Aspetti del simbolismo, 297.

[9] ⬆︎ Il pensiero di Divo Barsotti al riguardo potrebbe essere un indicatore assai pregnante. Forse non siamo davanti ad un “sistematico”, i suoi testi non ci mostrano uno stile ordinato e fluido ma piuttosto evidenziano un pensiero frammentato e continuamente posto nel presente ma volto all’eterno; reiteratamente reindirizzato alla realizzazione della propria vita ma sub specie aeternitatis, tale cioè da richiamare da un lato il continuo desiderio di Dio, dall’altro il valore dell’immanenza. Tale cioè, ancora, da trattare la stessa propria vita come un simbolo. Rimando ad alcuni titoli del monaco toscano, consapevole dell’inesaustività della citazione: D. Barsotti, Ebbi a cuore l’eterno, Rusconi, Milano 1981; Id., L’acqua e la pietra, Morcelliana, Brescia 1978; Id., Cristianesimo russo, Edizioni Carroccio, Vigodarzere (PD) 1987; Id., La fuga immobile, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004.

[10] ⬆︎ A.J. Festugière spiega che per trattare di mistica occorre guardare non tanto ai suoi contenuti, ovvero a questa o a quella corrente, quanto piuttosto all’origine che la determina. Egli parla propriamente delle «condizioni genetiche, di ordine psicologico» che spingono il singolo ad approfondire la mistica o, meglio, ad essere un mistico, perché il «fatto mistico [...] è un fenomeno religioso, e dunque un fatto dell’anima» ed è nell’anima che bisogna indagare per trovare il Principio cui il mistico anela. A.J. Festugière, Ermetismo e mistica pagana, trad. it., Il melangolo, Genova 1991, 14.

[11] ⬆︎ Cf. S. Knipe, Filosofia, religione, teurgia, in R. Chiaradonna (ed.), Filosofia tardoantica, Carocci, Roma 2012, 253-272.

[12] ⬆︎ Cf. C. Sanfilippo, Paganesimo e Cristianesimo, 66-67; 84-88.

[13] ⬆︎ Mi sembra il caso di segnalare che il libro di Schiavolin è completato da un’ampia rassegna bibliografica, suddivisa in bibliografia di Marco Vannini (monografie, traduzioni, curatele, contributi, sezioni introduttive) e bibliografia generale (fonti, critica – miscellanee, monografie, recensioni).

[14] ⬆︎ A.J. Festugière, Ermetismo e mistica pagana, 15.

[15] ⬆︎ M. Vannini, La religione della ragione, Bruno Mondadori, Milano 2007, 110.

[16] ⬆︎ Proprio perché tale viene considerato dalla letteratura di riferimento. Cf. J. Dillon–A. Timotin (eds.), Platonic Theories of Prayer, Brill, Leiden–Boston 2016.

[17] ⬆︎ Cf. M. Vannini, La religione della ragione, 89; Id., Lessico mistico, 7-13.

[18] ⬆︎ Anche Barsotti riferisce in maniera analoga dell’intimità del mistico al cospetto del divino; cambiandone i marcatori propri degli indici del cristianesimo, le sue considerazioni riguardo il mistico rientrerebbero in quelle esposte da Festugière e riferite poco sopra. Al di là del contenuto fenomenico, nell’analisi della mistica occorre applicarsi allo studio del fatto psicologico in sé, che ne origina il fenomeno. «Il mistico quando per la grazia si spoglia di sé e oltrepassa i limiti creati per immergersi in Dio sente Dio non come un assoluto impersonale, al contrario egli conosce Dio come l’Essere assoluto che tutto trascende e non si confonde con nessuna cosa creata ma rimane Unico e solo. La vita del mistico non è incoscienza ma suprema attività d’amore, dono di sé a Dio in una comunione ineffabile di vita: Dio è il “tu” assoluto dell’anima. La vita mistica è partecipazione a quel misterioso rifluire del Verbo al Padre nell’unità dell’Amore che è la vita divina. [...]. Adeguarsi a Dio è cosa impossibile all’uomo, ma quando il Verbo si comunica all’anima, allora nell’anima vivi tu, o Dio, e la vita dell’anima non è più il vuoto, il perdersi nella molteplicità dalle cose, ma è la forza assoluta: come un muoversi nel vuoto, un creare dal nulla, un essere affrancati dalla legge: è possedere tutta la vita: pienezza semplice e assoluta dell’Unità divina». D. Barsotti, La fuga immobile, 31.

[19] ⬆︎ «Indirizzandoci verso gli esseri primi, dobbiamo sollevarci dalle cose sensibili, che fra gli enti sono le più basse, in modo da prendere le distanze da ogni malvagità, e, nello sforzo di avvicinarci al Bene, da riuscire ad ascendere al principio che è dentro di noi: qui, rendendoci da molti che eravamo unità, ci facciamo contemplanti dell’Uno principio. Dunque, bisogna farsi Intelligenza, e l’Anima, ponendo ogni speranza nella sua Intelligenza, deve mettersi sotto la sua protezione, in modo da poter recepire con piena lucidità tutto quello che l’Intelligenza vede, e grazie a Lei, a sua volta, vedere l’Uno senza aggiungere alcuna sensazione, senza accogliere nell’Intelligenza alcun dato sensibile: insomma, con la “pura Intelligenza”, o meglio con ciò che è primo in essa, bisogna contemplare la cosa più pura». Plotino, Enneadi, VI 9, 3, 15-25. Plotino è essenziale nella riflessione di Vannini, non tale però che il pensiero di quest’ultimo ne diventi una derivazione, semmai una elaborata conseguenza, soprattutto riguardo alla questione del “distacco”. In effetti, se per “distacco” si intendesse quanto ha appena affermato Plotino, l’accordo tra i due sarebbe automatico; ma non mi pare sia così. Credo che ciò che intenda Vannini sia proprio un distaccarsi dalla realtà rimanendo pienamente in essa; non un abbandono, una “fuga”, ma una visione attuativa dell’hic et nunc, simbolicamente inteso. Non una ricerca genuinamente teoretica dell’Uno in quanto tale, e quindi una visione, ma una visione di quest’Uno a partire dal proprio statuto ontologico, che vede la natura dell’anima realizzarsi attraverso l’esercizio delle virtù nell’effettiva pratica della vita. «D’altra parte, il distacco non è negazione di vita, ma, al contrario, espressione massima della potenza dell’anima, intesa come principio razionale-spirituale dell’uomo». M. Vannini, La religione della ragione, 34.

[20] ⬆︎ «L’elemento che riunisce alla bellezza divina tutte le realtà inferiori e le raggruppa in una famiglia e che è causa della pienezza e della profusione che da là proviene, a mio giudizio è [...] l’amore, che di volta in volta in base al bello connette al livello che li precede sia gli dèi secondi sia i generi superiori sia le migliori tra le anime». Proclo, Teologia platonica, a cura di M. Abbate, Prefazione di W. Beierwaltes, Introduzione di G. Reale, Bompiani, Milano 2012, I, 10-15. Così in proposito Vannini: «L’amore in quanto desiderio è ciò che muove incessantemente verso il bene, attraverso la mediazione del bello. Come tale, è ciò che è capace di condurre, di grado in grado, fino alla Bellezza in sé, al Bene in sé, secondo la logica amorosa mirabilmente descritta nel Convito. Proprio in essa si scopre che amore è tanto desiderio quanto, dialetticamente, distacco: abbandono di un bene inferiore per conseguirne uno sempre superiore». M. Vannini, Lessico mistico, 17-18.

[21] ⬆︎ Mi riferisco per esempio ad una rilettura, con lente misteriosofica, degli Oracoli Caldaici. Cf. The Chaldean Oracles, text, translation, and commentary by R. Majercik, E.J. Brill, Leiden–New York–København–Köln 1989. Segnalo anche la collana Bibliotheca Chaldaica (diretta da Helmut Seng) dell’Universitätsverlag Winter di Heidelberg, che è uno degli strumenti più aggiornati sul tema. L’elenco dei volumi pubblicati e di prossima pubblicazione è consultabile nel sito web https://www. winterverlag.de (ultimo accesso: 11.04.2021).

[22] ⬆︎ Tralasciando le riportate citazioni sul teurgo e sull’amore platonico come tensione, in Lattanzio la questione mi sembra particolarmente pregnante poiché proprio nella prospettiva etica egli apre ad una filosofia del culto fondata su una concreta realizzazione dell’esistenza di ciascuno, fondamento del rapporto con la Divinità. i libri IV-VI delle Divine Istituzioni offrono spunti di riflessione sull’applicazione della giustizia nell’aequitas, propedeutica alla pietas verso Dio. Cf. Lactance, Institutions divines, livre IV, introduction, texte critique, traduction, notes et index par P. Monat (Sources Chrétiennes 377), Les Éditions du Cerf, Paris 1992; ID., Institutions divines, livre V, tome I, introduction, texte critique, traduction, notes et index par P. Monat (Sources Chrétiennes 204), Les Éditions du Cerf, Paris 2000; Id., Institutions divines, livre V, tome II, commentaire et index par P. Monat (Sources Chrétiennes 205), Les Éditions du Cerf, Paris 1973

[23] ⬆︎ Plotino, Enneadi, VI 9, 11, 23.