Attualità della mistica
di Francesca Nodari, <Città e Dintorni>, nn. 102-103;
Concetto che si dice in più modi, mantenendo, per lo più, un significato che si è affermato dal ’500 in poi – negli anni della Controriforma – quando per mistica si intendeva un’esperienza di eccezionalità spirituale, la mistica viene spesso confusa con esperienze vicine al visionarismo o all’irrazionalità – si pensi, soprattutto, agli autori anglosassoni. Per non dire dell’Enciclopedia francese delle mistiche ove si distingue, addirittura, tra mistica hippy o dei tarocchi, ponendo l’accento sull’aspetto misterico del concetto in questione. In realtà si tratta di trasposizioni di significato che rischiano di oscurare l’essenza stessa della parola, nata prima come aggettivo di teologia o interpretazione e, solo in un secondo tempo, impostasi come sostantivo.
Che cos’è, dunque la mistica? Un’esperienza di unità spirituale e profonda tra uomo e Dio e Dio e mondo. Ciò che trapela da questa definizione è il senso di non distinzione tra il piccolo ego personale e la totalità, che è la Trascendenza. Quale sfida scaturisce da questo fare vuoto di sé? Per un verso, approdare all’essenza che caratterizza universalmente ciascun uomo: un pervenire alla scoperta di sé, sapendo, per dirla con S. Giovanni della Croce, che: «la sostanza dell’anima è Dio». Per l’altro, essere consapevoli del fatto che chi davvero si cala «in interiore homine», perviene all’esperienza divina, che è – come avevano ben inteso gli Scolastici – una conoscenza attraverso l’esperienza di Dio».
Per fare luce su un concetto di tale levatura e registrarne l’attualità per il ricorso che se ne fa, persino nel delicato ed oggi più che mai indispensabile dialogo tra le religioni, abbiamo incontrato Marco Vannini (1) , il maggior studioso italiano di mistica speculativa e traduttore, con un infaticabile lavoro ventennale, dell’intera opera, latina e tedesca, di Meister Echkart.
Professor Vannini, come nasce il Suo interesse per la mistica?
Nasce spontaneamente, dall’educazione religiosa ricevuta nell’infanzia (siamo prima del Concilio!) e, insieme, dall’incontro e dalla passione per la filosofia, maturata nell’adolescenza. Fu proprio seguendo autonomi, disordinati ma appassionati sentieri di ricerca, che scoprii, nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, il librettino curato dal professor Giuseppe Faggin, La nascita eterna, ossia la sola antologia di Eckhart allora disponibile in italiano. Per quanto fossi solo uno studente ginnasiale, ebbi la certezza di essermi imbattuto in qualcosa di straordinario, infinitamente più profondo (o più alto) di tutto ciò che mi era fino ad allora noto – o veniva insegnato – una certezza che oggi, a distanza di mezzo secolo, è per me, se possibile, ancora più forte. Ovviamente non comprendevo tutto, e proprio per capire mi misi a studiare filosofia e poi teologia, dedicandomi in particolare agli autori e alle correnti che più si ri- ferivano a questo àmbito. Così, piano piano, mi diventò familiare quel mondo che, un po’ impropriamente e soprattutto in modo purtroppo molto equivoco, si chiama “mistica”.
Chi è per Lei Meister Eckhart e quali sono le opere che più La colpiscono del predicatore domenicano? Quali sono, a Suo parere, le proposizioni più importanti che gli vengono contestate nella Bolla In agro dominico promulgata il 27 marzo 1329? Per tornare alla Sua ultima fatica, Prego Dio che mi liberi da Dio – titolo che si riferisce direttamente al Sermone 52, Beati pauperes spiritu, di Meister Eckhart, che pare il Suo autore per eccellenza –, in che senso si può parlare di religione come menzogna e di religione come verità?
Come dicevo prima, per me Meister Eckhart è davvero Meister, magister, come lo chiamarono i suoi contemporanei. È il cristiano che ha più profondamente compreso il messaggio evangelico e, insieme, il filosofo medievale che ha saputo raccogliere il meglio dell’eredità classica. Le sue opere sono tutte ugualmente importanti, sia quelle in volgare, destinate al popolo, sia quelle in latino, nate per l’ambiente universitario. Da un punto di vista più filosofico–teoretico, si può dire però che il Commento al Vangelo di Giovanni sia l’opera più densa e rilevante, mentre per un accesso più immediato al suo pensiero e alla sua esperienza, sono certamente le opere in volgare, i Sermoni, o i cosiddetti Trattati, ad essere più utili. Sono anche le opere più affascinanti, profondissime e insieme semplici, accessibili a tutti, come solo un grande maestro di vita – Lebemeister, e non solo Lesemeister, ovvero professore, come notava di lui Heidegger – può fare. Valga un esempio per tutti: le cosiddette Istruzioni spirituali, ossia gli insegnamenti che Eckhart, priore domenicano ad Erfurt, impartiva la sera ai suoi novizi, riuniti in refettorio per la cena. Le proposizioni censurate dalla Bolla del 1329 (emanata, peraltro, da uno di quei Papi avignonesi avidi e sanguinari che Dante chiama “lupi rapaci”: si legga nel canto XXVII del Paradiso la lunghissima invettiva che il Poeta mette in bocca a san Pietro, e , nel canto XVIII, i versi 130–136, dedicati specificamente a Giovanni XXII, cui si deve appunto la Bolla) sono tutte importanti. Quelle che interessano il piano morale colpiscono forse di più, almeno a una prima lettura, come ad esempio la XVI: “Dio non comanda propriamente alcuna azione esteriore”, o la XIX: “Dio ama le anime, non l’opera esteriore”, o, ancora, la IV: “In ogni opera, anche cattiva – e dico cattiva in ordine sia alla pena che alla colpa – si manifesta e riluce ugualmente la gloria di Dio”, e la VI: “Chi bestemmia Dio, lo loda”. Direi però che più importanti sono le proposizioni che trattano del distacco, come la VIII: “Chi non ha di mira beni, né onori, né utilità, né devozione interna, né santità, né premio, né regno dei cie- li, ma ha rinunciato a tutto ciò, e anche a quel che è suo proprio, in tali uomini Dio viene onorato”, e, più ancora, quelle che investono direttamente il rapporto Dio–uomo. Ne ri- porto alcune: la XI recita: “Tutto quel che Dio padre ha dato al Figlio suo unigenito nella natura umana, lo ha dato anche a me, senza alcuna eccezione, né dell’unione né della santità: lo ha dato tutto a me come a lui”. La XX: “L’uomo buono è l’unigenito Figlio di Dio”, o, infine, la X: “Noi siamo trasformati totalmente in Dio e mutati in lui; come nel sacramento il pane viene mutato nel corpo di Cristo, così sono cambiato in lui, giacché egli mi rende uno col suo essere, non simile, per il Dio vivente è vero che non c’è più alcuna distinzione qui”. Si deve notare che si tratta sempre di proposizioni isolate, avulse dal contesto. Nella sua autodifesa al proceso, Eckhart sottolinea che tutte esse possono essere adeguatamente spiegate, anche se lamenta che i suoi censori e giudici siano imperiti, tardi, rudes, ovvero inesperti, rozzi, duri di cervello, e perciò condannino perché non capiscono, e condannino quello che non capiscono. Egli rivendica sempre la sua ortodossia, il suo ruolo di magister all’interno dell’ Ordine Domenicano, e infine si sottomette al giudizio della Chiesa, morendo in pace e comunione con essa. L’ultima Sua domanda è più complessa, ma per tentare di rispondere in breve, riassumendo il senso del mio prego Dio che mi liberi da Dio (che, come ricorda, è un’invocazione eckhartiana), direi che la religione è verità in quanto orientamento dell’anima, anzi, di tutto l’essere, verso l’Assoluto, fino a giungere a quella identificazione con esso di cui parlano, appunto, anche le frasi censurate sopra riportate, mentre è menzogna in quanto costruzione mentale (mi piace sempre ricordare che “mente”, in latino mens, è il sostantivo il cui verbo è mentire, mentiri latino, per cui si potrebbe fare un bel gioco di parole: Cosa fa la mente? semplice: la mente mente). Infatti la costruzione mentale è un frutto della presenza dell’egoità, ossia di ciò che tutte le mistiche considerano il male radicale. Non è forse essenziale anche nell’insegnamento evangelico la “rinuncia a se stessi” (abrenuntiare semetipsum di Lc 9, 23) ? Spiegando il passo cruciale di Gv 8, 44, Eckhart sottolinea come il demonio sia padre della menzogna e mentitore egli stesso perché ex propriis loquitur, ovvero parla di ciò che è suo. Ciò che è proprio, egoico, è infatti la radice di ogni male e peccato. In questo senso, un Cristianesimo senza conversione e distacco, e dunque senza rinascita spirituale, senza grazia, è del tutto falso. Per dirla ancora con le parole di Eckhart, una tale religione e teologia sono menzogna e bestemmia.
In che senso Agostino, Eckhart, Silesius sono da considerarsi pen- satori di riferimento per la nostra contemporaneità?
Partiamo dal primo: Agostino. Oggi è di moda rimproverargli la sua con- cezione pessimistica dell’uomo, con le conseguenze esclusivistiche in senso clericale, con la sua morale dura, rigorosa, soprattutto in materia sessuale, ecc. Quello che invece è essenziale in Agostino (che è, detto per inciso, il Padre della Chiesa di gran lunga più amato e citato anche da Eckhart) è però l’aver visto con precisione e senza compromessi la malizia di fondo dell’uomo, quell’ amor sui, amore di sé, che distoglie radicalmente dal Bene, da Dio. Noi non trarremo quelle conseguenze che il Vescovo di Ippona trasse a suo tempo, come la dannazione eterna per i non battezzati e simili, ma l’essenziale dell’insegnamento resta: senza una radicale conversione, senza la grazia, senza la rinascita spirituale, l’uomo resta immerso in una condizione lontana da Dio. Può certamente farsi un’immagine di Dio, pregare un Dio – dunque avere una religione –, ma – e qui torna il discorso accennato sopra – quella religione è menzogna, quel Dio è un idolo. Non meraviglia, dunque, che al numquam satis laudatus Augustinus, al non mai abbastanza lodato Agostino, come diceva Lutero, facciano sempre riferimento i mistici cristiani. Attraverso Agostino, poi, penetrano nel Cristianesimo latino Platone, Plotino, il neoplatonismo – ovvero la fonte mistica per eccellenza –, che non è esaurita, non cessa di zampillare.
Eckhart è privo di quelle asprezze dogmatiche e di quell’esclusivismo clericale che, come dicevo, oggi si rimprovera ad Agostino. Lui, uomo del medioevo, contemporaneo di Dante, pensa che tutti abbiano ed abbiano avuto la luce e la grazia di Dio: pagani, ebrei, musulmani. Anzi, si spinge addirittura a dire che i filosofi pagani sono andati più avanti di san Paolo, perché sono arrivati con la loro esperienza là dove san Paolo è arrivato per grazia! Non meraviglia perciò che, oggi, Meister Eckhart sia il punto di riferimento costante nel dialogo tra le religioni (o, per meglio dire, tra le mistiche), soprattutto con quelle dell’India. Farò solo l’esempio di Henri Le Saux – il benedettino francese, amico di Raimon Panikkar – che si recò in India, visse come un asceta indù, ricercando il senso profondo della spiritualità indiana: nel suo incontro con le Upanishad, scopre che il Cristianesimo ne possiede già la sapienza, ma il Cristianesimo è, appunto, quello di Meister Eckhart.
Silesius è significativo per noi per diversi motivi. Il primo è che si tratta ormai di un uomo moderno, dei tempi di Galileo e di Spinoza, passato per le guerre di religione, ecc., per cui i suoi versi – splendidi, capolavoro della poesia tedesca quanto della mistica – non suonano affatto arcaici o lontani. Il secondo è che il suo capolavoro, il Pellegrino cherubico, non è solo la “versificazione di Eckhart”, come giustamente è stato detto, ma anche un vaso di raccolta di tutta la mistica occidentale (quest’ultima definizione è di von Balthasar). Infatti si vede bene, in esso, come armonicamente confluiscano e convivano i motivi classici – stoici, platonici e neoplatonici soprattutto – con quelli cristiani, dalla mistica speculativa più astratta, metafisica, a quella più sentimentale, del “cuore”. Non meraviglia che la lettura dei suoi versi, “incommensurabilmente profondi” (come li definisce Schopenhauer) sia raccomandata da Lacan quale propedeutica a tutti quelli che vogliono occuparsi di analisi della psiche.
Può indicare, in breve, la linea della mistica speculativa?
“Speculativa” è un aggettivo utilizzato dagli studiosi tedeschi dell’Ottocento per definire la mistica medievale di lingua germanica (o di lingue affini), in quanto in essa l’elemento razionale è predominante. Hegel, ad esempio, ha ben chiaro questo rilievo razionale, e perciò scrive: “Col concetto di speculativo bisogna intendere ciò che un tempo si soleva chiamare mistico. Oggi mistico suona come misterioso, ma si deve notare che è misterioso solo per l’intelletto finito. Esso, infatti, ha come principio l’identità astratta, mentre per il mistico – che è lo stesso di speculativo – lo è la concreta unità di quelle determinazioni che per l’intelletto finito valgono solo nella loro separatezza ed opposizione”. La mistica speculativa è in effetti dialettica, come diremmo oggi, e ciò è esplicitamente espresso dai suoi rappresentanti, Eckhart per primo: “Quando l’anima entra nella luce della ragione, essa non sa più niente degli opposti”– ovvero supera gli opposti – in primo luogo, ovviamente, l’opposizione Dio–uomo, o Dio–mondo. Un altro che lo comprese benissimo è Niccolò Cusano. In realtà nell’esperienza spirituale (io preferisco sempre questa espressione, rispetto al troppo equivoco “mistica”) di Eckhart ha, agostinianamente, un grande peso anche l’amore: come insegna Margherita Porete, i due occhi dell’anima sono intelligenza ed amore, ed è la loro cooperazione a fare “semplice” lo sguardo (Specchio delle anime semplici); però tra i due è l’intelligenza, la ragione, ad avere la preminenza, perché è essa che opera più potentemente ed inesorabilmente il distacco: comprendendo, riconducendo sempre all’umano, al finito, essa impedisce infatti di scambiare per assoluto qualcosa che è invece relativo, e così compie il servizio “religioso” essenziale: quello di rispettare la trascendenza del Bene, di Dio, che è sempre, platonicamente, epèkeina tès ousìas, al di là dell’essere, o dell’ente. In altre parole, è la ra- gione che sa distinguere il Dio vero dal Dio falso, ovvero quello che va pregato perché ci liberi dalle nostre produzioni immaginarie.
Quali sono le fonti greche della mistica speculativa?
Il concetto stesso di mistica è greco, pre–cristiano. Scriveva giustamente Simone Weil che il padre della mistica occidentale è Platone, in particolare col suo Convito, ove si descrive il cammino di amore/filosofia che ascende, di grado in grado, dal sensi- bile all’intelligibile, fino al Bello in sé, che è anche il Bene in sé. È ancora Platone che conia il termine e il concetto stesso di teologia, affermando peraltro che di Dio sappiamo soltanto che è buono e che da lui ven- gono solo beni – niente altro – e che non dobbiamo pensare tanto di “conoscere” Dio, quanto di “farci simili” a lui (homòiosis tò theò), liberandoci dalle catene della corporeità, distaccandoci da tutto ciò che è illusorio e ascendendo verso la luce, come si può leggere nella Repubblica, nel celebre mito della caverna.
Da Aristotele la mistica speculativa ha ripreso il fondamentale concetto di nous poietikòs, intelletto attivo: l’intelligenza pura, “separata”, non dipendente dal condizionamento dell’esperienza, che è eterna, divina, e costituisce l’essenza più vera dell’uomo. Questo è il concetto da cui deriva, attraverso varie mediazioni, il concetto stesso di spirito: non a caso il filosofo e teologo medievale Emerico di Campo potrà dire che “lo Spirito santo è la luce dell’intelletto attivo, che sempre risplende”, ed Eckhart ripete che lo Spirito Santo è dato solo a chi vive nella luce dell’intelletto – che è, appunto, il nous poietikòs aristotelico. Dall’eredità stoica, così profondamente passata nel mondo cristiano antico, la mistica riprende quel concetto di “fondo dell’anima” (Grund der Seele, in tedesco), o di “scintilla dell’anima”, o di apex mentis (tutte espressioni sostanzialmente equivalenti), che è quella parte, per così dire, dell’anima, che non è toccata da determinazioni di alcun genere e che è quella in cui abita Dio, e Dio soltanto. Dagli stoici viene peraltro anche la dottrina dell’amor fati, ossia l’amore per tutto ciò che avviene, visto come manifestazione della impersonale Provvidenza divina, che appare perfetta bontà e bellezza all’uomo distac- cato. L’uomo distaccato, di uguale animo in ogni istante, vive così l’istante presente come eterno.
Dal neoplatonismo, infine, e da Plotino in particolare, perviene alla mistica speculativa del mondo cristiano tutta la tematica dell’Uno, principio fontale dell’essere, da cui tutto eternamente proviene e tutto ritorna. Basti ricordare che proprio l’espressione stessa “teologia mistica” compare nel breve, omonimo, trattato di Dionigi detto Areopagita – quello sconosciuto autore del V–VI secolo dopo Cristo che i medievali consideravano il maestro della teologia mistica e che è tanto profondamente neoplatonico che alcuni studiosi hanno perfino messo in dubbio che fosse cristiano! Non a caso nel mondo protestante, da Lutero fino ai nostri giorni, la mistica viene guardata con sospetto e ostilità, dato che le si attribuisce un carattere appunto neoplatonico e non biblico–cristiano. Dal neoplatonismo proviene an- che il concetto di ineffabilità dell’Uno, e quindi il carattere appunto “mistico” – che significa originariamente riservato, silenzioso, segreto – dell’esperienza dell’Uno: quell’estasi che è prima di tutto un en–stasi, ossia un rientrare in se stessi, nel più profondo dell’anima nostra (ricordiamo ancora una volta l’appello di Agostino: “In te ipsum redi”, rientra in te stesso…).
(1) Oltre a tutte le opere, latine e tedesche, di Meister Eckhart, Marco Vannini ha curato l’edizione italiana della Teologia mistica di Jean Gerson (Paoline 1992); il Libretto della vita perfetta, o Teologia tedesca, dell’Anonimo Francofortese (Newton Compton 1994, poi Bompiani 2009); le Prefazioni alla Bibbia di Lutero (Marietti 1997); Mistica d’Oriente, mistica d’Occidente di Rudolf Otto (Marietti 1985, poi SE 2011); la Spiegazione delle massime dei santi sulla vita interiore di Fénelon (San Paolo 2002); i Paradossi di Sebastian Franck (Morcelliana 2009); Conversione e distacco di Valentin Weigel (Morcelliana 2010); in collaborazione con Giovanna Fozzer, il Pellegrino cherubico di Angelus Silesius (Paoline 1989) e Sapienza mistica di Daniel Czepko (Morcelliana 2005); con Giovanna Fozzer e Romana Guarnieri, lo Specchio delle anime semplici di Margherita Porete (San Paolo 1994). Ha diretto la Collana «I Mistici» dell’editore Mondadori, pubblicando una trentina di autori, antichi, medievali, moderni e contemporanei. Tra i suoi principali lavori ricordiamo: Lontano dal segno. Saggio sul cristianesimo (La Nuova Italia 1971); Dialettica della fede (Marietti 1983, poi Le Lettere 2011); Nietzsche e il cristianesimo (D’Anna 1986), Meister Eckhart e «il fondo dell’anima» (Città Nuova 1991); L’esperienza dello spirito (Augustinus 1991); Introduzione a Silesius (Nardini 1992), Il volto del Dio nascosto (Mondadori 1999, poi : Storia della mistica occidentale, Oscar Mondadori 2010), Introduzione alla mistica (Morcelliana 2000), La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia (Le Lettere 2003), La mistica delle grandi religioni. Induismo, buddhismo, ebraismo, islam, cristianesimo (Mondadori 2004, poi Le Lettere 2010), Tesi per una riforma religiosa (Le Lettere 2006), La religione della ragione (Mondadori Bruno 2007), Mistica e filosofia (Piemme 1996, nuova edizione Le Lettere 2007), Sulla grazia (Le Lettere 2008), Invito al pensiero di Sant’Agostino (Mursia 20092), Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna (Bompiani 2010).
Quali sono le fonti greche della mistica speculativa?
«Il concetto stesso di mistica è greco, pre–cristiano. Scriveva giustamente Simone Weil che il padre della mistica occidentale è Platone, in particolare col suo Convito, ove si descrive il cammino di amore/filosofia che ascende, di grado in grado, dal sensibile all’intelligibile, fino al Bello in sé, che è anche il Bene in sé. È ancora Platone che conia il termine e il concetto stesso di teologia, affermando peraltro che di Dio sappiamo soltanto che è buono e che da lui vengono solo beni – niente altro – e che non dobbiamo pensare tanto di “conoscere” Dio, quanto di “farci simili” a lui (homòiosis tò theò), liberandoci dalle catene della corporeità, distaccandoci da tutto ciò che è illusorio e ascendendo verso la luce, come si può leggere nella Repubblica, nel celebre mito della caverna. Da Aristotele la mistica speculativa ha ripreso il fondamentale concetto di nous poietikòs, intelletto attivo: l’intelligenza pura, “separata”, non dipendente dal condizionamento dell’esperienza, che è eterna, divina, e costituisce l’essenza più vera dell’uomo. Questo è il concetto da cui deriva, attraverso varie mediazioni, il concetto stesso di spirito: non a caso il filosofo e teologo medievale Emerico di Campo potrà dire che “lo Spirito santo è la luce dell’intelletto attivo, che sempre risplende”, ed Eckhart ripete che lo Spirito Santo è dato solo a chi vive nella luce dell’intelletto – che è, appunto, il nous poietikòs aristotelico. Dall’eredità stoica, così profondamente passata nel mondo cristiano antico, la mistica riprende quel concetto di “fondo dell’anima” (Grund der Seele, in tedesco), o di “scintilla dell’anima”, o di apex mentis (tutte espressioni sostanzialmente equivalenti), che è quella parte, per così dire, dell’anima, che non è toccata da determinazioni di alcun genere e che è quella in cui abita Dio, e Dio soltanto. Dagli stoici viene peraltro anche la dottrina dell’amor fati, ossia l’amore per tutto ciò che avviene, visto come manifestazione della impersonale Provvidenza divina, che appare perfetta bontà e bellezza all’uomo distaccato. L’uomo distaccato, di uguale animo in ogni istante, vive così l’istante presente come eterno. Dal neoplatonismo, infine, e da Plotino in particolare, perviene alla mistica speculativa del mondo cristiano tutta la tematica dell’Uno, principio fontale dell’essere, da cui tutto eternamente proviene e tutto ritorna. Basti ricordare che proprio l’espressione stessa “teologia mistica” compare nel breve, omonimo, trattato di Dionigi detto Areopagita – quello sconosciuto autore del V–VI secolo dopo Cristo che i medievali consideravano il maestro della teologia mistica e che è tanto profondamente neoplatonico che alcuni studiosi hanno perfino messo in dubbio che fosse cristiano! Non a caso nel mondo protestante, da Lutero fino ai nostri giorni, la mistica viene guardata con sospetto e ostilità, dato che le si attribuisce un carattere appunto neoplatonico e non biblico–cristiano. Dal neoplatonismo proviene anche il concetto di ineffabilità dell’Uno, e quindi il carattere appunto “mistico” – che significa originariamente riservato, silenzioso, segreto – dell’esperienza dell’Uno: quell’estasi che è prima di tutto un en–stasi, ossia un rientrare in se stessi, nel più profondo dell’anima nostra (ricordiamo ancora una volta l’appello di Agostino: “In te ipsum redi”, rientra in te stesso…)».
Può spiegarci, in breve, i concetti centrali della mistica: distacco, abbandono, umiltà, liberarsi di Dio, farsi simile a Dio?
«L’insegnamento fondamentale del distacco si trova espresso sinteticamente proprio in Plotino, con le celebri parole: Áfele pànta, distàccati da tutto, togli via tutto. Questo afàirein, questo “toglier via”, è il toglier via l’accidentale, il superficiale, l’inessenziale, in modo che venga alla luce il profondo, l’essenziale, ossia la realtà vera, costitutiva dell’uomo – che è la luce stessa, Dio. Con un’immagine che avrà grande fortuna (la riprese anche Michelangelo, educato dai platonici fiorentini di fine ‘400), Plotino parla della necessità di “scolpire la propria statua”, togliendo via il marmo che la ricopre, perché la nostra vera immagine è ricoperta da scorie, proprio come la statua è ricoperta dal marmo che la cela: si tratta dunque di “toglier via” per far apparire il vero. Ora, le scorie che ricoprono il nostro vero, profondo, essere, che sussiste sempre ma non riesce a venire alla luce, sono tutti gli elementi accidentali presenti nella nostra psichicità, ovvero tutto il complesso di desideri, volizioni, contenuti di vario genere, che ci determinano nel “dove” e nel “quando”, impedendoci di essere quello che veramente siamo: assoluta, pura luce. Il distacco ha innanzitutto un carattere che potremmo definire ascetico, nel senso che occorre togliere innanzitutto di mezzo tutti quei desideri, quei legami di ordine materiale, carnale, che rendono davvero schiava l’anima nostra, ma l’essenziale – e qui sta il centro dell’insegnamento di Eckhart, peraltro in sintonia con tutte le grandi tradizioni spirituali – è distaccarsi non dalle cose, ma da se stessi, dall’egoità, che trova sempre nuovo alimento e può nutrirsi, paradossalmente anche di desideri per così dire “spirituali”. Perciò se non ci si distacca da se stessi non ci si distacca da niente, mentre se ci si distacca da se stessi si è, immediatamente, distaccati da tutto, indipendentemente dal genere di vita che si sta conducendo, dalle azioni che dobbiamo compiere, ecc. Questo radicale distacco da se stessi è per un verso estremamente difficile da compiere, perché noi siamo straordinariamente affezionati al nostro piccolo “io” (e perciò a tutto quanto lo nutre) e quindi la malizia dell’ego, l’amor sui, incessantemente tende a rifiorire e a prendere il sopravvento, ma, d’altra parte, è anche straordinariamente facile, in un solo istante si può compiere, senza alcun bisogno di preparazione, di metodiche, di “tecniche” psicologiche o altro. La “facilità” dell’esperienza spirituale, che è perciò accessibile a tutti, uomini e donne, dotti e indotti (lo notavano anche le umili suore analfabete che ascoltavano i sermoni di Eckhart) è favorita dal fatto che basta una sola volta, un solo attimo, in cui ti sei distaccato da te stesso, perché tu abbia sperimentato la presenza della luce eterna, di Dio, in te stesso, con la pace e la gioia ineffabile, exsuperans omnem sensum, che ne consegue. Infatti – insegna sempre il maestro domenicano – Dio non può fare a meno di scendere in quell’anima che ha fatto il vuoto in e di se stessa: come alla natura (secondo la fisica aristotelica) ripugna il vuoto, per cui qualcosa deve riempirlo, così Dio non può fare a meno di riempire con tutto se stesso l’anima vuota, ossia libera, pura. Perciò da allora in poi niente avrà più sapore per te, niente sarà più importante di quella gioia e di quella pace, e, nonostante tutto, la cercherai e la troverai. Non occorre sottolineare quanto tutto ciò, di cui ho pure evidenziato la radice neoplatonica, sia profondamente ed essenzialmente iscrivibile nel messaggio evangelico e nel suo linguaggio: rinuncia a se stessi, odiare la propria anima, fine dell’“uomo vecchio”, rinascita dell’ “uomo nuovo”, morte dell’ “uomo carnale”, rinascita dell’“uomo spirituale”, ecc. Infatti l’uomo distaccato, che “niente vuole, niente sa, niente ha”, come dice Eckhart nel sermone Beati pauperes spiritu che abbiamo già ricordato, non è altro che l’uomo povero in spirito delle Beatitudini. Il termine “abbandono”, con cui si traduce spesso la tedesca Gelassenheit, cara anche ad Heidegger, è correlato a distacco, nel senso che esprime quella serena confidenza in Dio senza la quale non ci può essere distacco, giacché è per l’assoluto che si toglie via il relativo. È la rinuncia alla volontà propria, affidandosi, abbandonandosi, appunto, alla impersonale volontà di Dio: “en la sua voluntade è nostra pace; /ella è quel mare al qual tutto si move,/ ciò che ella cria e che natura face”, come Piccarda Donati dice a Dante, nel Paradiso. Quanto ad umiltà, ricordo innanzitutto che è proprio con essa che Margherita Porete, di cui quest’anno ricorre il settimo centenario del martirio (lo abbiamo da poco celebrato a Berlino, ma in Italia nessuno se ne ricorda!), inizia il suo capolavoro: essa è l’inizio di ogni sapere spirituale. Infatti non si tratta di un generico senso di modestia, quanto di un sapere vero e proprio: il sapere che tutto, assolutamente tutto quel che è nostro, appartiene ad humus (la terra, da cui i medievali facevano derivare non solo humilitas, ma anche homo), e perciò è sottomesso alla necessità, ovvero al determinismo spazio temporale, e, in quanto tale, non è un assoluto di cui possiamo gloriarci. Uomo umile è perciò lo stesso che uomo distaccato: quello in cui si effonde la grazia divina, proprio come la umile terra è recettiva alla pioggia o ai raggi del sole che incessantemente vengono dal cielo. Liberarsi da Dio significa, ovviamente, un liberarsi dalle immagini fallaci di Dio in nome del Dio vero: perciò il paradossale Prego Dio che mi liberi da Dio. Questo è facilmente comprensibile, ma forse non lo è fino in fondo, nella sua radicalità, e perciò Meister Eckhart ebbe ed ha avuto tante incomprensioni. Perché qui non si devono fare eccezioni: il liberarsi da Dio è liberarsi da ogni immagine (in greco eidolon, idolo!) di Dio, giacché ogni immagine, con la sua determinatezza, ovvero con le caratcaratteristiche che ha, impedisce l’essere vero di Dio, che è Spirito, senza determinazione e immagine alcuna. La rappresentazione, l’immaginazione, è ciò che riempie i vuoti, fa da ostacolo, e così impedisce alla grazia di effondersi e di giungere all’uomo; in questo senso essa è il peccato per eccellenza – notava giustamente Simone Weil. Devono perciò andarsene anche le raffigurazioni bibliche, perché l’esperienza dello Spirito fa esplodere ogni dottrina, ogni religiosità, e deve necessariamente “andarsene” anche l’immagine religiosa del Cristo; ma, attenzione: questo è precisamente ciò che Cristo stesso dice ai suoi amici (così, infatti, li chiama) nel momento del congedo: “È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non può venire a voi lo Spirito” (Gv 16, 7). Spiegando questo passo giovanneo, Eckhart sottolinea come il legame “religioso” (gioco di parole: la religio è il legame per eccellenza!) sia quello che più potentemente tiene prigionieri, perché è il legame con quello che riteniamo l’assoluto. Non è certo un caso che le religioni siano state e siano tuttora responsabili di tanta violenza, consumata nel nome di “Dio”. Il Cristo della mistica è perciò il Lògos, il divino che inabita nell’uomo e lo trasforma, lo divinizza. A questo proposito, infatti, si deve dire che Eckhart va molto oltre il concetto di homòiosis tò theò, somiglianza con Dio, che abbiamo sopra ricordato, per affermare esplicitamente non la somiglianza, che implica sempre la dualità, bensì l’unità essenziale, l’identità, tra l’uomo in cui abita il Lògos e Dio – come si è visto, di passaggio, anche nelle sue proposizioni censurate, citate all’inizio»
Può offrirci un ritratto su due figure mistiche contemporanee di grande fascino: Simone Weil e Madre Teresa di Calcutta?
«Sono molto lieto di questa domanda, perché mi permette di far notare come la mistica non sia né un retaggio arcaico del passato, né un’attività di evasione, di fuga dal mondo, da “anime belle”, come tanto spesso si sente dire. Le due donne in questione sono state infatti anche, ciascuna a suo modo, nel tempo e nel mondo proprio a ciascuna, due donne di azione, di impegno sociale, politico. Parto dalla seconda, Madre Teresa di Calcutta, proprio perché essa è nota principalmente proprio sotto quest’ultimo versante, quello della carità, mentre non tutti sanno che esso era nutrito e sostenuto da una profonda vocazione spirituale: Una mistica tra Oriente e Occidente è, giustamente, il titolo che la mia amica Gloria Germani ha dato al suo libro su Madre Teresa. Infatti dall’insegnamento della mistica cristiana, in armonia con quello proveniente dalla tradizione dell’India – le Upanishad, la Baghavad Gīta, Gandhi – la suora albanese recepì l’insegnamento fondamentale: quello del distacco, spoliazione o abbandono totale (total surrender, scrive in inglese), del vuoto che si deve fare in noi stessi, cancellando l’egoità personale. Se questo avviene, allora “il bene degli altri ti è caro assolutamente come il tuo, per niente di meno”, come dice Eckhart – per cui la carità, la dedizione, diventa naturale, proprio come una nuova forma di vita, che si vive senza sforzo, con gioia. Meno nota è Simone Weil (1909 – 1943), l’ebrea francese, rivoluzionaria in gioventù, impegnata nelle lotte politiche e sindacali, operaia in fabbrica per conoscere davvero la condizione operaia, partecipe alla Resistenza antinazista e – insieme – ricercatrice appassionata della verità e approdata perciò al Cristianesimo. Anche se di recente il centenario della sua nascita è stato occasione di numerosi convegni, la Weil resta comunque “scomoda” , e perciò non nota quanto meriterebbe, perché la sua riflessione autonoma non si inquadra nelle categorie consuete alla cristianità, soprattutto a quella degli ultimi decenni, e non si presta ad “utilizzazioni” di nessun tipo. La sua vicenda è invece di grandissimo rilievo per noi, in quanto Simone, che è un’intellettuale di rango, affronta i problemi della cultura del nostro tempo e pone quindi la Chiesa di fronte alla necessità di fare una “pulizia filosofica”, ovvero di rispondere a domande ineludibili, come quella del rapporto con la “fonte biblica” del Cristianesimo – una fonte alla quale per molti versi la ricerca scientifica contemporanea ha dimostrato non potersi abbeverare – o con le altre religioni, almeno nel loro versante mistico, quando e se questo è presente. Purtroppo la Chiesa ha, di fatto, eluso il confronto con la Weil, e questo significa la rinuncia ad abbeverarsi alla “fonte greca”, ossia la rinuncia non solo alla mistica, ma anche alla ragione, rinchiudendosi nel fideismo e nel biblicismo. Sono fermamente convinto che si tratti di un personaggio di prima grandezza, particolarmente significativo per il suo cammino di ricerca, che testimonia dell’universalità della mistica: non a caso ho scelto lei, cui devo moltissimo, come termine ultimo di riferimento nella mia Storia della mistica occidentale, che ha infatti come sottotitolo Dall’Iliade a Simone Weil. Si potrebbe anche dire Da Simone Weil a Simone Weil, perché l’Iliade presa come inizio è l’ “Iliade poema della forza” di cui Simone parla nel suo splendido saggio omonimo – davvero una delle cose più belle che io abbia mai letto – ed a lei è dedicato anche il capitolo conclusivo del mio Prego Dio che mi liberi da Dio. Ciò che contraddistingue al massimo la Weil è l’onestà intellettuale, la fedeltà all’esperienza, arrivando da questa alla religione e alla mistica – non il contrario, ovvero non partendo dalle credenze, dall’immaginazione – e perciò le sue parole hanno sempre uno straordinario, inusuale timbro di verità, di sincerità. Simone parte infatti da una educazione laica, dall’agnosticismo, e approda, attraverso un cammino razionale, sostanzialmente autonomo, da vera filosofia, ad una esperienza spirituale singolarmente profonda, in assoluta sintonia con quella dei grandi maestri del passato, come Margherita Porete o Meister Eckhart, che ella conobbe peraltro solo di sfuggita, negli ultimi anni della sua breve vita. Ritengo che l’essenziale della ricchissima esperienza weiliana, quale si manifesta nei suoi Quaderni, che testimoniano una cultura sterminata, sia comunque rintracciabile ne La pesanteur et la grâce (tradotto malamente in italiano come L’ombra e la grazia). Pur essendo niente altro che una piccola antologia dei suoi scritti, compilata post mortem da un amico, costituisce a mio parere una versione contemporanea degli antichi trattati “Sulla natura e la grazia”. E proprio la comprensione dei due regni, quello della natura e della grazia, nella loro distinzione e nel loro rapporto, credo sia necessario recuperare ai nostri giorni, in un tempo e in una religione che sembra non saperlo più».
C'è un futuro del Cristianesimo senza mistica?
«Un futuro c’è senza dubbio, comunque, perché la religione funziona anche da elemento di rassicurazione psicologica e di aggregazione sociale. È probabile, sotto questo profilo, che si vada verso forme sempre più accentuate di sincretismo religioso, a motivo della cosiddetta “globalizzazione”, e, in questo àmbito, anche un Cristianesimo “sociologico” può trovare un suo spazio. Il problema però è che Cristianesimo sia questo, ovvero quanto abbia a che fare con il messaggio evangelico; io credo poco o nulla. D’altra parte non c’è dubbio che la via della mistica sia oggi, come lo è sempre stata, una via poco battuta e non ritengo che in futuro sarà molto diverso da oggi. È però anche vero che la globalizzazione porta a conoscenza delle esperienze spirituali delle altre grandi religioni, come l’Induismo o il Buddhismo; di qui il fenomeno, abbastanza diffuso, di tante persone in ricerca interiore che approdano a queste mistiche orientali, senza sapere che anche nel Cristianesimo esiste una luminosa tradizione spirituale, ricca e profonda altrettanto – almeno – quanto quelle. Può darsi che la si riscopra proprio passando dall’Oriente: perciò è importante farla conoscere, indipendentemente da quali saranno le vicende del futuro, che Dio solo sa».
Il rapporto tra filosofia e mistica tra conflitto e affinità. Quali sono le identità, quali le differenze?
«A mio parere, il rapporto tra mistica e filosofia è un rapporto sostanzialmente di identità, ovvero le differenze, che pure sussistono, sono irrilevanti rispetto a questa affinità, soprattutto se intendiamo per mistica quella che abbiamo chiamato “speculativa” e, d’altra parte, se prendiamo la filosofia nel suo senso forte, ovvero come quella attività che ha in comune con la religione il suo oggetto, cioè l’Assoluto, come la definiva Hegel. Se invece si prendono altri sensi, riduttivi, della parola filosofia, come accade spesso oggi, proprio perché è venuta meno la fede nella capacità di muoversi verso l’Assoluto e di coglierlo (la Chandogya Upanishad dice infatti che senza fede non c’è pensiero!), beh, allora non v’è dubbio che mistica e filosofia siano due cose ben diverse. Bisogna comunque sottolineare che il senso forte della parola filosofia è anche quello originario, quello classico, come si è configurato a partire da chi, secondo la tradizione, ha coniato la parola stessa – il filosofo, matematico, mistico Pitagora. Uno dei miei libri, che si intitola proprio Mistica e filosofia, si potrebbe intitolare perciò anche Mistica è filosofia. Il compianto professor Pierre Hadot ha mostrato nei suoi splendidi studi come la mistica cristiana sia l’unica vera erede della filosofia classica. Infatti il filosofo greco era prima di tutto un uomo che praticava un genere di vita, il bìos theoretikòs, la vita rivolta alla conoscenza, la vita contemplativa. Filosofare, insegna Platone nel Fedone, è “esercitarsi a morire”, e in effetti, al di là delle differenti dottrine, dalla sua origine fino alla sua estinzione manu militari ad opera di Giustiniano, la filosofia antica si distingueva per essere innanzitutto un’esistenza condotta essenzialmente nel segno del distacco, che è la mors mystica, come hanno descritto i grandi spirituali cristiani – da Eckhart a san Giovanni della Croce, fino ad arrivare ad Hegel – il filosofo in cui la tradizione della mors mystica giunge a compimento (mi permetto di dire che questo è l’argomento del mio La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia). La figura del filosofo è poi mutata,diventando quella di un intellettuale organico prima alla Chiesa, poi allo Stato, poi ai partiti, fino a diventare quello che è oggi, e che non saprei neanche definire. Non a caso la stessa parola “filosofia” oggi si impiega anche per indicare una strategia aziendale, tipo “la filosofia della FIAT”…. Giustamente, perciò, Maria Zambrano scrive non solo che il Cristianesimo ha tradito Cristo tradendo – ovvero abbandonando – la mistica, ma anche che la fine della mistica ha portato di fatto con sé, nell’epoca contemporanea, la fine della filosofia – almeno nel senso forte, nobile, classico, del termine».
Il corpo e la mistica. Se abbiamo compreso correttamente, secondo la Sua visione, la mistica non è philopsichìa, ma pneuma…
«I nostri tempi vedono il predominio del corpo, proprio come nel passato c’era stato quello dell’anima. Il vero tempio di oggi non è più la chiesa, ma la palestra – luogo simpaticissimo, peraltro, ove si esercitano i muscoli; peccato però che le cellule cerebrali non siano di tessuto muscolare. È vero, comunque, che certa mistica aveva un disprezzo della corporeità che era effettivamente patologico. Questo però non è vero per la mistica che abbiamo convenuto di chiamare speculativa: essa si fonda non sul dualismo corpo–anima, ma sulla antropologia tripartita del mondo classico – corpo, anima, spirito – e riconosce l’importanza di ciascuna di queste componenti. Eckhart scrive alla lettera: “lo spirito non può essere perfetto, se prima il corpo e l’anima non sono perfetti”, e Margherita Porete dice che l’anima distaccata dà al corpo, senza alcun rimorso di coscienza, tutto ciò che la natura richiede. Dunque, nessun disprezzo del corpo. Resta però vero che delle tre componenti dell’uomo sia l’ultima in ordine di comparsa, lo spirito, ad avere il ruolo principale. Dio è spirito, dice Gesù in Gv 4, 24 e l’uomo è parimenti spirito, ed è nello spirito che si unisce a Dio: qui adhaeret domino, unus spiritus est (1 Cor 6, 17). Si apre qui un problema davvero epocale: alla fine del Seicento la mistica speculativa venne condannata dalla Chiesa (quella che gli storici francesi hanno chiamato la déroute de la mystique); da allora in poi non solo la mistica è stata considerata solo un fenomeno marginale, irrazionale e parente del patologico, ma, quel che è peggio, lo spirito è di fatto sparito dall’orizzonte della cultura, per il semplice e drammatico motivo che ne è venuta meno l’esperienza. Al posto della mistica, scienza dello spirito, è subentrata la psicologia, vera disciplina arcontica del nostro tempo, cui l’umanità chiede quello che ha sempre chiesto: conoscenza di sé per avere felicità. Fin qui nulla di male: il sapere psicologico può essere utile, ma il fatto è che la psicologia si configura oggi come philopsichìa e, anzi, psicolatrìa, ovvero adorazione dell’anima, senza esperienza dello spirito. Ciò è tragico, perché significa l’adorazione dell’ego, ovvero precisamente l’opposto della via del distacco, della via mistica, e i risultati sono quelli che ciascuno ha davanti agli occhi: si moltiplicano come funghi le “scuole” psicologiche (in Italia ne sono state contate più di cinquecento), in un fiorente mercato, ove però si vende un prodotto fasullo, ovvero una promessa di salute e felicità che resta vana, illusoria. È vero, comunque, che oggi stiamo già vivendo la fine di questa illusione, e forse anche per questo si va spesso alla ricerca, come sopra dicevo, delle spiritualità dell’ Oriente, dal momento che il Cristianesimo ha occultato la propria».
Mistica-felicità: quale rapporto? In che senso la beatitudine può essere intesa come visio Dei?
«Come ho accennato sopra, l’esperienza mistica è anche esperienza di grandissima gioia, qui ed ora, al presente, che è il vero tempo dell’eterno. I maestri che abbiamo citato dicono anzi che l’anima non prova gioia, ma è la gioia stessa, ovvero che la gioia che si prova non è nostra, ma qualcosa per così dire di universale, la gioia in se stessa. Pur con quella sobrietà che sempre contraddistingue il linguaggio di chi è davvero profondo, spirituale, essi parlano di una gioia indicibile, estatica, anche se di un’estasi assolutamente quotidiana, familiare, non riservata a pochi momenti straordinari, ma che ci accompagna in ogni istante della nostra esistenza. Più che di una visio beatifica, riservata all’altra vita – un argomento, questo, su cui non possiamo, di fatto dire niente – si parla perciò di una visione del mondo con gli occhi di Dio, qui ed ora. Non devi pensare che Dio sia lassù e noi quaggiù, insegna Eckhart; il divino è presente in ogni creatura: “ogni creatura è piena di Dio”, scrive infatti, ricordando il passo in cui Gesù, alla domanda di Filippo, che gli chiedeva di fargli vedere il Padre, risponde “Chi vede me, vede il Padre”(Gv 14, 9). Nello stesso senso, ma ancor più chiaramente – e duramente per la religione come menzogna – Angelus Silesius canta: “Tu dici che vedrai un giorno Dio e la sua luce: Stolto, non la vedrai mai, se non la vedi già ora”».
www.filosofilungologlio.it/interviste/item/166 (prima parte),
www.filosofilungologlio.it/interviste/item/270 (seconda parte).