Ma ha senso parlare di “anima”?
di Roberta De Monticelli, in: <Il Sole-24 Ore>, domenica 31 agosto 2003.
Il dibattito in corso sul luogo della nostra mente nell'ordine della natura, che trova così ampio riscontro, da anni, anche su queste pagine, potrebbe essere illustrato da un ulteriore punto di vista. «Anima» e «spirito», che pure in una loro superstiziosa, spettrale accezione compaiono a volte come fumosi sinonimi di «mente» o «psiche» nelle teorie dei dualisti, sono parole boccheggianti, anche e soprattutto nel linguaggio comune. Perché? Una risposta certamente degna di essere discussa, anche per la sua chiarezza e la profondità delle sue implicazioni, viene offerta dal recente libro di Marco Vannini, La morte dell'anima.
Una risposta che non dovrebbe interessare solo i filosofi, ma anche tutte le persone per cui parlare di vita interiore o vita spirituale conserva un senso, e fra loro quelle cui sta a cuore il suo aspetto religioso, e si interrogano magari, come Mario Perniola, sulla natura Del sentire cattolico (Il Mulino, 2001).
Questo libro meriterebbe insomma di suscitare un dibattito, almeno come quello cui diede luogo qualche anno fa il più leggero libro di Pietro Prini, Lo scisma sommerso (Garzanti 1999). A Vannini dobbiamo fra l'altro edizioni impeccabili delle opere di Meister Eckhart, Giovanni Gerson, Angelo Silesio e Margherita Porete (questi ultimi nella traduzione di Giovanna Fozzer, delicata poetessa, che ha dedicato alla Porete anche limpidi saggi e una bellissima biografia immaginaria, Nello specchio di Margherita, Firenze 2001). Ma la lunga meditazione di Vannini sull'aspetto mistico del pensiero filosofico è tutto fuorché un'erudita storia della mistica, come potrebbe apparire a uno sguardo di superficie. Come nei lavori precedenti (fra i quali si dovrebbero citare almeno, fra i più recenti, Mistica e Filosofia (1996) e Il volto del Dio nascosto, L'esperienza mistica dall'Iliade a Simone Weil (1999), l'autore ascolta con attenzione il senso comune, o la diffusa indifferenza di cui si lamentano i papi e i cardinali: a suo parere infatti l'Illuminismo ha reso indecenti le teologie fondate sui miti delle Sacre Scritture. E accetta virtualmente, come già Simone Weil, la visione completamente disincantata della "natura", che Nietzsche esprimeva con la sua (magari per alcuni un po' stucchevole) strategia del sospetto, ma che con Freud diventò la filosofia popolare dell'uomo: «il determinismo naturale, l'egoismo che comanda ogni nostra azione, quell'amore di sé che è capace di ogni metamorfosi, di ogni camuffamento pur di sussistere». E vede nel nostro presente una decisa tendenza a realizzare l'idea che era già del positivismo ottocentesco di Comte: di negare, cioè, «statuto di scienza alla psicologia, riassumendola da un lato nella biologia, dall'altro nella sociologia». Appunto: perché? Più della secolarizzazione o della scienza, sembra dirci Vannini, è una religione che non quadra con l'onestà della ragione, una religione fatta di credenze invece che di fiducia e di oggettivazioni superstiziose invece che di esperienza del divino, a svuotare di senso comune parole come "anima" e "spirito".
Già: e il loro senso, qual era? Quello che da sempre indica la mistica, intesa come esercizio di distacco dall'io e della sua auto-affermazione, e come sola via di accesso all'esperienza del divino. Così la triade corpo, psiche, spirito, quale si trova nelle Lettere di Paolo, descrive l'intima morte-rinascita che trasforma l'uomo psichico, attaccato a sé stesso e alla sua vita, nell'uomo spirituale, che vede il mondo con gli occhi di Dio. Alla "morte della psiche" corrisponde la vita dell'anima (della sua "essenza" inoggettivabile, distinta dalle sue "potenze" o facoltà, oggetto della psicologia) e in lei dello spirito stesso, che è il divino, quale si deve adorare «né su questa montagna né in Gerusalemme» ma «in spirito e verità». Viene così illuminata l'esperienza di Cristo, e insieme il senso della sua imitatio nel cristiano: entrambe interpretate nella chiave del Vangelo di Giovanni, e della sua lettura eckhartiana. Così intesa, la mistica, lungi dall'opporsi al pensiero, è da un lato il cuore e la radice viva di ogni religione, ma è dall'altro «la filosofia nel suo senso più reale e profondo», la conoscenza e la pratica dell'essere, "e la gioia nell'essere".
De non aliud — si potrebbe riassumere con il titolo di un'opera di Cusano — questo pensiero de «l'esperienza della non alterità dell'essere, la gioia dell'assoluto bene qui e ora, il superamento di ogni alienazione». E in questa luce resta ammirevole la coerenza con cui questo autore, che si è provato in studi di mistica comparativa dagli amplissimi orizzonti, sembra aderire tenacemente alla specificità cristiana dell'esperienza dello spirito, con il domenicano Meister Eckhardt e la sua ispiratrice Margherita Porete, senza evidentemente nascondere uno solo dei motivi per cui il pensiero di entrambi, pur in diversa misura, fu anatemizzato dalla Chiesa. Infatti Vannini non cessa di porsi, e di porci, il problema: «si tratta di decidere quale sia l'essenza del Cristianesimo, se una religione o non piuttosto il superamento della religione».
Marco Vannini, «La morte dell'anima«, Le Lettere, Firenze 2003, pagg. 334, € 20,00.