A colpi di Bibbia

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di Sergio Givone, PANORAMA 19 Aprile 1987

Marietti pubblica le “Sacre Scritture” secondo Lutero.

Certamente, come scrive Marco Vannini nell'introduzione alla raccolta delle Prefazioni bibliche di Martin Lutero che Marietti sta per pubblicare in traduzione italiana, «si può dire che tutta l'attività del Riformatore e la sua stessa teologia consistano in una esposizione, commento, interpretazione della Scrittura». È appellandosi alla Bibbia che Lutero conduce la sua lotta implacabile contro il «papato imperiale» e contro lo stravolgimento «anticristico» del messaggio cristiano. Ed è in nome della Bibbia ch'egli denuncia quel «grande, pericoloso, molteplice scandalo» che consiste non solo e non tanto nello stato di estrema corruzione in cui versa l'umanità, ma piuttosto nel tentativo di ripristinare, complice la Chiesa di Roma, una concezione del mondo sostanzialmente idolatrica e paganeggiante.

Lutero non è un moralista, anche se la violenza delle sue invettive potrebbe farlo pensare, e tantomeno è l'esponente d'una cultura di nuovo barbara e anticlassica. Anzi, in lui è riconoscibile una specie di fascinazione per la stessa realtà bollata con parole di fuoco. Se il mondo, fuori dell'orizzonte della fede, gli appare inesorabilmente condannato, tuttavia non mancano nei suoi scritti tracce di ammirazione per la grandezza degli antichi e la loro storia; e se questa grandezza non è, come diceva Agostino, altro che uno «splendido vizio», però è pur sempre qualcosa di nobile e di alto in confronto a «questi tempi orribili».

Il fatto è, forse, che Lutero aveva perfettamente compreso qual era la posta in gioco. Per riprendere un'osservazione di Nietzsche: mai l'Europa ebbe, né mai più avrebbe avuto, come ai giorni dello scontro fra Lutero e Roma, una più grande occasione di rompere definitivamente con il cristianesimo e di ritornare a prospettive davvero umanistiche. Lutero vide con chiarezza che la Bibbia, soltanto la Bibbia poteva essere il punto di forza d'una rivitalizzazione della fede cristiana. Perciò tradusse per primo la Bibbia in volgare, nella sua lingua, il tedesco, poi instancabilmente la commentò, avendo soprattutto cura di essere chiaro e comprensibile a tutti, insomma seppe risvegliare nella memoria storica dell'Occidente il suo contenuto più profondo. E vinse, suscitando come si sa un grande rivolgimento nello stesso cattolicesimo romano.

Ma fino a che punto si trattò davvero d'una vittoria? Fino a che punto, cioè, Lutero riuscì a imporre la sua interpretazione del cristianesimo? Il cristianesimo di Lutero è arduo, severo, spesso scostante, anche se per altro verso teneramente e fiduciosamente ispirato a una promessa di consolazione per la quale, egli dice, vale la pena »dare mille volte la vita»; ma soprattutto è irriducibile a qualsiasi compromesso mondano, perché secondo Lutero l'illusione che il mondo possa salvarsi con le sue sole forze è mortale. Di questo cristianesimo paradossale e dialettico Lutero trova la chiave nella Lettera ai rom ani, dove San Paolo insegna che « nessuno compie la legge con le opere», perché il cuore dell'uomo inclina irresistibilmente alla menzogna e al male, eppure per grazia l'uomo può «operare con gioia e amore, vivere in libertà senza la costrizione della legge, in modo giusto e divino, come se non ci fosse legge o punizione».

Parola difficile, la parola di Lutero, e soprattutto molto lontana dallo spirito «liberale» e accomodante di gran parte della teologia contemporanea. Prendere sul serio questa parola nella sua inattualità significa disporsi a un ripensamento non addomesticato e non evasivo della tradizione religiosa da cui stiamo forse prendendo congedo ma alla quale ancora apparteniamo.