19ma Settimana Alfonsiana
Mercoledì 25 Settembre
Marco Vannini sarà ospite e relatore alla 19ma Settimana Alfonsiana.
Per Informazioni:
Padri Redentoristi – Rivista Segno
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La porta del Paradiso
“Oggi sarai con me nel Paradiso” (Lc 23,43). Era in croce Gesù quando con queste parole rispose al ladrone che con sorprendente confidenza gli aveva chiesto di ricordarsi di lui una volta entrato nel suo regno. Qual è il senso della umanissima preghiera del ladrone e della incredibile risposta di Gesù che spalanca il Paradiso al brigante che gli sta accanto appeso, come lui, all’albero maledetto? Cosa legava Gesù e il bandito, l’innocenza e la colpa? Quale profondissima complicità univa i due sull’abisso della morte che abbatte tutti, reprobi e innocenti? L’evangelista non sembra dire molto. Affida tutto alla pietà intelligente di chi entra in quelle parole e vede e comprende anche ciò che resta nascosto nel Gòlgota dell’umanità perdente. Evidente è invece il destino comune di una stessa condanna, uno stesso patibolo, una uguale morte di uomini sconfitti. A cui però comune è anche – ecco il senso – lo stesso Paradiso.
È impossibile comprendere il significato delle parole di Gesù e del ladrone se le isoliamo dal contesto fortemente drammatico della crocifissione, il supplizio più atroce – mors turpissima crucis – dai romani riservato agli schiavi. Implicava l’orrendo massacro del corpo al quale non veniva risparmiata nessuna crudeltà. Pilato – “giudice ingiusto e iniquo” lo apostrofa sant’Alfonso – quando ordinò di flagellare Gesù non pensava certo di consegnarlo a uomini gentili e mani delicate ma a aguzzini sadici privi di pietà. I quali lo sfigurarono con strumenti spaventosi. Le ultime ore di Gesù passarono tra percosse umiliazioni e dileggi, con porpora sulle spalle, corona di spine in testa, una canna per scettro e genuflessioni spassose della coorte. E era solo. Posato da tutti. Pure da Dio. Senza un filo di conforto. Inferno estremo.
Morì crocifisso tra crocifissi, delinquente tra delinquenti. Le sette parole che gli vengono attribuite forse non le pronunciò mai. Non ne avrebbe avuto la forza. Marco scrive che non era in grado di portare la croce e costrinsero un passante a portarla per lui. Ecce homo: larva di uomo con le carni lacere e senza fiato. Le parole al compagno che gli stava a lato le disse senza voce mentre la vita lo lasciava. Parlava solo il suo corpo crocifisso nell’atto di spalancare il Paradiso di Dio a briganti e assassini, all’umanità sfinita.
Ma non è forse questo il Vangelo: il Paradiso donato ai ladroni – buoni e cattivi – ai disgraziati, ai miserabili? Perché Dio è così: tutto grazia e misericordia ai crocifissi, all’umanità disperata. E si comprende che la grazia e il Paradiso vengono da Dio. Mentre la croce viene dal potere, dagli uomini. Gesù di Nazaret in croce è la porta aperta del Paradiso.
NINO FASULLO
19A SETTIMANA ALFONSIANA
Testo del discorso tenuto a Palermo il 25 settembre 2013
MARCO VANNINI
Oggi sarai con me nel Paradiso
Grazie di questo invito, che ho accolto con piacere, perché torno ben volentieri a Palermo. Vengo subito al mio tema. Io di solito qui vengo presentato come studioso, alcuni dicono anche esperto di mistica. Nessuno pensi che mistica e razionalità siano in contrasto. Al contrario, vanno d’accordo in una maniera infinita. Anzi il mistico è il razionale. Ciò vorrei fosse chiaro sin dall’inizio. E non lo dico solo io. Penso, ad esempio, a un grande studioso di storia della filosofia, in particolare della filosofia antica, a Pierre Hadot, che fu un professore dell’Università di Parigi, scomparso nel 2010, il quale insiste proprio su questo. Nel suo bellissimo libro Esercizi spirituali, termini che a molti potrebbe ricordare Ignazio di Loyola, sostiene proprio che i cosiddetti mistici nel mondo cristiano sono i più autentici prosecutori della filosofia nel senso classico del termine, nel senso greco del termine, perché la filosofia è nata là, là è nato il concetto, là è nata la parola etc. Perché il senso del mistico è il buon filosofare che è un esercizio di vita e anche un esercizio di morte o comunque è un vivere, è un’esperienza di vita.
Riprendo volentieri lo spunto che ha dato poco fa il professor Bodei quando ha citato una celebre espressione platonica, il filosofare come melesse tanatu. Però penso che qui più che meditazione di morte bisogna proprio intendere esercizio di morte, un esercitarsi a morire. È un concetto che percorre la storia intera del pensiero e della mistica in particolare, dove ovviamente l’esercizio di morte non significa fare prove piazzandosi in una bara o qualcosa del genere, c’è chi l’ha fatto, si dice che i trappisti avessero l’abitudine di dormire in una bara per ricordarsi che quella era la fine. Ma il thanatos a cui bisogna esercitarsi non è la morte nel senso fisico del termine ma il distacco: distacco dalle passioni, distacco dai legami e soprattutto il distacco per eccellenza, che è il distacco dall’egoità. E qui credo che non ci siano dubbi che il mistico cristiano, che non è il visionario, che non è quello che ha l’esperienze paranormali, di audizioni, visioni o cose del genere. È una persona assolutamente normale. Ma il mistico cristiano è l’uomo del distacco, del distacco soprattutto dall’egoità: “Rinuncia a te stesso, chi vuole essere mio discepolo, rinunci a sé stesso”. Abrenutiare se ipsum, dice il Vangelo. E cercare quella morte. Qui odit animam suam… odiare la propria anima… se il chicco di grano non muore… ecc. Ecco, questa morte è il distacco. E io credo – e ovviamente avrei a disposizione per esempi l’intera storia del pensiero, che questo distacco, questa morte è appunto il senso forte del filosofare e anche della imitazione di Cristo. Difatti i padri della Chiesa greca, o comunque dei primi secoli, non avevano timore – penso per esempio a Massimo il Confessore – a parlare di una filosofia di Cristo.
Chiudo la parentesi e vengo al mio tema, cioè al versetto di Luca che ci ha riuniti qui stasera. Io vorrei dire qualche cosa, seppure rapidamente, su quel emeron, su quel oggi. “Oggi sarai con me in paradiso”. “Oggi” è il discorso sul tempo, sull’ora, su cui il Vangelo insiste più volte. Penso per esempio al Vangelo di Giovanni, all’incontro di Gesù con la samaritana: “Viene l’ora ed è questa”, erke taioniora cainesti, anch’io non voglio fare come l’amico Massimo Cacciari che parla volentieri il greco, ma a volte una paroletta si può dire. Il presente, la dimensione del presente come dimensione stessa dell’eterno. Perché il versetto di Luca in effetti è l’unico dei sinottici che lo racconta e per un certo verso potrebbe sembrare che le parole che l’evangelista mette in bocca a Gesù rimandino a una dimensione di un arrivo serale in una condizione di beatitudine, di gioia. Come sapete tutti il paradiso era il giardino irrigato di acque, di frutti, che nelle culture vicino Oriente sembrava ovviamente una condizione particolarmente bella.
Ma io non credo che sia così, se fosse così potrebbe avere un suono molto simile a un altro testo, ma mi piace molto anche quello, che ci viene dal mondo greco, che è il racconto che fanno gli storici e soprattutto i biografi posteriori della battaglia delle Termopili, quando Leonida e i suoi affronta l’intero esercito persiano, con i pochi non che gli sono rimasti ma che ha voluto che restassero perché ha congelato il resto dell’esercito, ha congelato tutti gli alleati perché vuole – dice Erodoto – che la gloria di questo evento resti soltanto a lui e agli spartani e per latri motivi. Ma uno degli aneddoti che vengono raccontati è che avrebbe detto ai suoi all’alba sapendo che alla sera su di loro sarebbero state le parche, cioè sarebbero tutti morti perché i persiani li stavano aggirando e l’indovino Magistia aveva detto che alla sera sarebbero tutti morti. Per me è una pagina straordinariamente suggestiva e non posso raccontarla senza provare profonda commozione. Bene, Leonida avrebbe detto di fare colazione al mattino “perché stasera ceneremo tutti all’ade”.
Ecco, io credo che il testo evangelico non abbia niente in comune con questo, cioè non rimandi a nessun imminente futuro “paradisiaco”, visto che c’è la parola “paradiso”. E lo dico non tanto in prima persona, io sono un modesto rivenditore di merce che ho trovato altrove, magari l’ho trovata, ma che credo che invece il senso forte sia il rimando alla vita eterna, non al paradiso, che può configurarsi come uno dei tanti campi elisi o ade di una certa tradizione, ma alla vita eterna. La vita eterna che non è un mitico aldilà e non si configura neanche nel tempo. Non si configura nel tempo ce lo dice proprio l’aggettivo “eterna”, l’aion, l’eterno, è per sua stessa natura qualcosa che va al di fuori o sta al di sopra, non può coincidere col concetto di tempo. Tempo è la dimensione della divisione. La parola sia greca sia latina poi in italiano è quasi uguale, ci viene dal verbo tagliare, dividere. Il tempo è quello appunto. Io ho davanti l’orologio per vedere quanto devo parlare e quindi devo distinguere, devo dividere. È il luogo della scansione. Agli inizi della filosofia cristiana ci sono delle straordinarie pagine di Agostino, negli ultimi libri delle Confessioni, che parlano del tempo, questo tempo che tutti noi crediamo di conoscere ma quando ci viene chiesto che cos’è poi – dice Agostino – non sappiamo rispondere. E che in ogni modo si configura – risponde Agostino e possiamo rispondere anche noi – come una dimensione della nostra coscienza, la scansione, distentio animi dice Agostino.
Ecco, qui “eterno” significa qualcos’altro. Est vita eterna – dice Gesù nel Vangelo di Giovanni – huc cogniscant te, la vita eterna sta in un sapere, la vita eterna è che conoscano te, Dio, unico, vero. La vita eterna non come una condizione infinitamente lunga di gioia, beatitudine, in vario modo descritta, perché si va nelle religioni, nelle culture, dalle descrizioni più o meno legate ai sensi e fa il Corano, al Paradiso di Dante dove i beati sono lì che danzano e cantano di fronte alla gloria divina.
Ecco, perché se ci fate attenzione un eterno così pensato può configurarsi non come vita ma come morte, come una immobilità, una perennità che non ha più nulla della vita, perché la vita è movimento e la stasi, l’immobilità, è la morte. Se volete la perfezione, anche lì ci viene incontro volentieri la lingua greca, o i teleoi, i perfetti, in greco vuol dire anche i morti. E perfetto, come nella lingua italiana come nella grammatica, vuol dire finito. Quando è giunto a perfezione è finito. Se preferite l’italiano, il Boccaccio parlando di tutt’altre cose, quelle boccaccesche che sono il paradiso, parlando di un giovane che realizza quello che desiderava con una fanciulla “recò a perfezione il suo giovanil disiderio”. La perfezione è la fine.
Mi permetto di fare un esempio, anche questo è di una bellezza secondo me straordinaria. E purtroppo nelle nostre scuole magari lo si insegna, ma non sempre credo se ne fa percepire il rilievo. Lo prendo da Omero. Prendo da Omero l’inizio dell’Odissea. Come tutti voi ricordate Ulisse se ne stava beato in un’isola con una bellissima ninfa, Calipso, la quale non solo era giovane e bella, ma era anche una dea o comunque qualcosa di simile, e offre ad Ulisse di essere suo sposo e di avere l’immortalità. Ma Ulisse preferisce tornare a casa, sceglie una vita mortale, di tornare dalla moglie che sarà stata anche bella ma intanto era un po’ avanti con gli anni visto l’andazzo e poi sicuramente la Calipso doveva essere più discreta. Questo Omero non lo dice ma ci è chiaro a tutti. E sceglie di affrontare ancora una volta il mare, questo suo dio nemico che gli ha fatto morire tutti i compagni, ma rifiuta l’immortalità e rifiuta l’amore di questa bellissima donna per tornare file en patridi gaie, nella cara terra dei padri, là dagli umani, quelli che sono mortali, perché Omero lo ricorda sempre che noi siamo i miseri mortali, ma questo sceglie Ulisse. Secondo me è un testo straordinario e non a caso faccio cominciare, per quanto mi concerne, la storia della mistica occidentale da Omero. Perché l’ho citato? Per indicare con un esempio proprio quello che volevo dire.
Se noi pensiamo l’eterno e anche la beatitudine eterna secondo la via della rappresentazione, possiamo rappresentarci il bello e il buono come lo vogliamo. Scegliete voi. Io ho fatto due esempi, dalle rappresentazioni coraniche al Paradiso di Dante o altro che preferite. Ma se ci si fa attenzione, questo eterno assume i caratteri della cattiva infinità, cioè di un infinito che sulle prime può attrarre, ma poi se uno lo guarda bene fa orrore, perché è sempre quello, cioè è privo dell’elemento vita. Ma così non è e così scrivono gli autori che ho contribuito a far conoscere magari traducendoli in italiano, questi grandi mistici ma io direi anche filosofi del mondo occidentale, perché io ovviamente di quello mi sono occupato. Così non pensano loro, pensano invece che l’eterno, l’eternità, non stia in una prosecuzione infinita di una condizione straordinariamente bella, ma innanzitutto – ecco il punto di questo semeron – oggi, ercheta iora, viene l’ora, eiumesti, ed è questa; ma innanzitutto sia qui ed ora, in un presente che non solo come diceva Pascal è l’unico tempo di cui disponiamo davvero e su questo credo che non ci piova, perché il futuro non lo sappiamo, il passato non lo sappiamo, poi – lo dico un po’ scherzosamente – questo paradiso e questa vita eterna ci sarà, noi tutti ci crediamo, ma l’unico tempo di cui disponiamo è il presente. È il presente che deve colorarsi, deve assumere il colore dell’eterno, cioè dell’infinito. E difatti nell’Occidente la storia della mistica ama molto l’espressione “eterno presente”, ewigen dicono i mistici medievali tedeschi che sono quelli di cui mi sono più occupato. In un presente, in un qui ed ora che deve assumere e può assumere il colore beato della beatitudine della vita eterna. E lo assume appunto nel distacco, quando dimenticando non solo il peso dei problemi, dei desideri, delle passioni etc. ma dimenticando soprattutto sé stessi, rinunciando a sé stessi si apre la dimensione dell’eterno.
Io amo molto un poeta del Seicento sempre tedesco che si chiama Angelus Silesius, poeta “mistico”, il quale ha scritto una serie di cose, ma in particolare un capolavoro – lo dicono tutti da Hermann Hesse a Von Balthasar – che si chiama Il pellegrino cherubico, una serie di distici che trattano della vita spirituale. Lui veniva dal mondo protestante, era un medico, aveva studiato tra l’altro da noi a Padova, però diventò prete cattolico. Ha alcuni dei versi più belli su questo tema, cioè sul tempo e l’eternità. Innanzitutto il tempo è qualcosa che facciamo noi, che dipende da noi. Lui dice: “Sei tu a fare il tempo, le lancette dell’orologio sono i sensi”. Loro avevano orologi con le lancette, non avevano quelli digitali. “Ma se tu arresti il bilanciere – che però in tedesco si chiama unru, l’inquietudine, è un gioco di parole – il tempo non c’è più. Come se tu arresti il bilanciere dell’orologio le lancette si fermano. Cioè la dimensione del tempo è data dai legami che le sensazioni ci danno, ma di queste ti puoi liberare, puoi accedere a una dimensione che è la dimensione spirituale, la dimensione dello spirito”. “E allora lì stai attento – dice ancora Silesius, perché lui si rivolge a un anonimo interlocutore che se stesse in qualche maniera predicando – perché se ti sembra più lunga l’eternità del tempo, tu stai parlando di pena, non di beatitudine. Se ti sembra che l’eternità sia più lunga del tempo – e normalmente è così – bada che tu stai parlando di dolore, di pena, non di beatitudine, stai attento”. “Perché – dice ancora in due altri distici – tu dici che vedrai un giorno Dio e la sua luce? Pazzo, stolto, non lo vedrai mai se non lo vedi già ora”.