Meccaniche divine

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L'Osservatore Romano, supplemento "Donne, Chiesa, Mondo", gennaio 2016

di Marco Vannini

Meccaniche divine

Una diffusa opinione vuole che l’amicizia tra uomo e donna non sia possibile se non intercorre (o non sia intercorsa) tra loro anche una relazione sessuale. Un’amicizia solo spirituale sarebbe dunque qualcosa di artificioso, di ingannevole prima di tutto nei confronti di se stessi. Questa opinione presuppone che la pienezza dell’amore tra uomo e donna si manifesti nel rapporto sessuale, verso il quale tenderebbe inesorabilmente l’amore stesso come a suo compimento, e, in questo senso l’amicizia sarebbe solo una fase inferiore, più povera e modesta.

La diffusione di questa opinione dipende dal predominio di quella che Platone nel Convito chiama la Venere Pandemia, cioè volgare, nel duplice senso della parola in italiano: ampiamente diffusa tra il popolo e anche lontana dall’eleganza di ciò che è nobile. Ma la Venere Pandemia esiste, non dobbiamo negarlo, in quanto è vero che una corrente erotica passa necessariamente nei rapporti tra uomo e donna. Eros, demone mediatore tra l’uomo e Dio, incessantemente richiama verso la bellezza e spinge a ricercare l’unione con essa, e la prima forma con cui ciò si manifesta è, appunto, il desiderio sessuale. Perciò in tutti è diffusa la Venere Pandemia, che, si badi bene, è una dea e come tale va onorata. Ovvero, fuori dal mito, dobbiamo riconoscere che al fondo della natura umana esiste, insopprimibile, Eros, l’amore, che è innanzitutto desiderio di unione con un corpo. Questo onesto riconoscimento è il punto di partenza per comprendere quel mistero dell’amore che Diotima, sacerdotessa di Mantinea, rivela a Socrate. Perché il desiderio sessuale è solo la prima e più comune manifestazione della potenza del demone, che muta forma e diventa più ricco e più gioioso col crescere. Sottolineiamo questo punto. Come notava Simone Weil, solo un’epoca miserabile come la nostra può prendere sul serio Freud, l’anti-Platone per eccellenza, e la sua concezione per cui l’eros sessuale è primario, rispetto al quale sono diminuzioni le altre forme di amore.

In realtà, quando l’amore è forte, esso si muove di grado in grado verso il più, e lascia il meno, come dice la mistica medievale Margherita Porete, ripetendo, senza affatto saperlo, l’insegnamento impartito a Socrate da Diotima, a testimonianza che davvero le donne hanno “intelletto d’amore”. Così anche Agostino, nelle sue Confessioni, ricordando la giovinezza, ora che è grande e che sa cosa davvero sia l’Amore, che è Dio, riconosce che stava allora cercando l’amore: non sapeva cosa fosse, non sapeva amare, ma era l’amore che stava amando. Amare amabam perché è l’amore che si ama davvero: l’amore è il soggetto che ama, l’oggetto amato e, insieme, l’atto stesso di amare. La creatura, con la finitezza, è ciò che risveglia in noi quella “divina follia” con la quale giungono all’uomo tutti i doni più belli da parte di Dio: allora la Venere Pandemia cede il posto alla Venere Urania, che conduce l’uomo verso il cielo. L’amicizia non è una forma imperfetta di eros, ma, al contrario, il suo grado più alto.

Meister Eckhart scrive che l’amore per una creatura è in realtà amore di se stessi e da questo amore non si ricava che amarezza, giacché tutte le creature sono un nulla, dal momento che ricevono tutto il loro essere da Dio, e il contatto con il nulla non fa altro che male. L’amore per una creatura è un miracolo, di cui non c’è niente di più bello ma neanche di più straziante, perché mette davanti la finitezza, la molteplicità, e così la lontananza dall’Uno, in cui, solo, è la pace. In questo senso, scrive sempre Eckhart, dove entra la creatura, esce Dio. L’amore che ha un perché non è puro, in quanto dove c’è il perché c’è l’utile, comunque configurato. L’amore puro è senza perché. Infatti l’anima ha due occhi: uno guarda la creatura, e la ama con un amore carico di tenerezza e compassione proprio per la sua finitezza; l’altro guarda l’eterno, l’Uno, e nell’Uno ama tutte le creature di un amore che non è più per i corpi, ma per le anime che cerca di rendere migliori, così come viene reso migliore da questo amore.

Questo vale indipendentemente dal sesso. L’amicizia non è qualcosa che si deve cercare, chiedere o sperare: è una virtù, e come tale la si esercita e basta, come scrive Simone Weil. L’amicizia non è uno stato d’animo che va e viene, non è un sentimento, ma riguarda quello che i mistici chiamano il fondo dell’anima, ben più profondo dei mutevoli sentimenti, inaccessibile a tutto, fuori che a Dio nella sua nuda essenza. Riguarda non l’anima, ma lo spirito, è lì non v’è più maschio o femmina, come scrive Paolo, dove non ha più peso il sesso.

D’altra parte però non v’è dubbio che l’essere umano sia sessuato, e sesso significa divisione (sexus da secare): siamo maschi e femmine e per natura cerchiamo quella metà che ci manca, senza la quale si resta non psicologicamente pacificati, carichi di incomprensione e risentimento. Perciò è in un’amica che un uomo trova il perfetto completamento, così come una donna lo trova in un amico: certo, una corrente di Eros c’è, e deve esserci, perché lo spirito non può essere perfetto se prima il corpo e l’anima non sono perfetti, insegna ancora Eckhart, riferendosi a ciò che poi i tedeschi (come Goethe e Nietzsche) hanno chiamato Vergeistigung, spiritualizzazione, o Sublimation, ma in un senso opposto a quello in cui lo usa Freud (che lo ha rubato a Nietzsche): non mistificazione dell’istinto sessuale, ma suo inveramento.

Proprio nell’amicizia, dunque, ricca dell’eros tra uomo e donna, più che mai si manifesta la grazia di quel «sentimento popolare che nasce da meccaniche divine», come dice una canzone dei nostri giorni, l’Amore «che muove il sole e l’altre stelle». Ne possiamo addurre testimonianze infinite: dall’antichità a oggi, la storia ne è piena. Da quelle celebri come Chiara e Francesco, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, Giovanna di Chantal e Francesco di Sales, a quelle di intellettuali come Madame Guyon e François de Fénelon, Adrienne von Speyr e Hans Urs von Balthasar o Raïssa e Jacques Maritain, che furono anche moglie e marito. Non si tratta dunque di qualcosa che vale solo per religiosi e religiose, santi e intellettuali. Valga l’esempio di due nostri contemporanei: il domenicano Antonio Lupi e la giovane Tilde Manzotti, in cui epistolario (Amare infinitamente. Epistolario 1938-1939, a cura di Elena Cammarata, San Leolino, Editore Féeria, 2014, pagine 90, euro 12) mostra, ancora una volta, la bellezza e la profondità dell’amicizia tra uomo e donna.