La festa dello spirito nel profondo dell'anima

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di Marco Vannini

“Chi ha detto che Dio è spirito ha fatto fare il più grande passo avanti all'incredulità”, scrive con la consueta lucidità Nietzsche. Infatti lo spirito non è rappresentabile, dunque non può diventare un Dio/idolo e le immagini proposte a questo proposito, come colombe o simili, destano solo il sarcasmo degli increduli. Senza rappresentazione, però, è impossibile credere in un Dio/altro e perciò nello spirito non si può credere: bisogna conoscerlo, ovvero diventarlo, esserlo.

Non a caso il vangelo di Giovanni, cui Nietzsche si riferisce, esente dall' immagine ebraica di Dio, è l'unico ad affermare che Dio è spirito e, insieme, anche l'unico ad affermare la divinità di Cristo e il suo comunicarsi all'uomo proprio quando il Dio/altro scompare (Gv 16,7) . Riconoscere Dio come spirito e anche l'uomo come Dio sono, infatti, una sola e medesima operazione dell'intelligenza. Anche nella lontana, eppur per tanti versi vicinissima India delle Upanishad , il padre ripete al figlio questo insegnamento: l'essere, Dio, è atman, spirito, e tat tvam asi, tu stesso lo sei.

Ma Nietzsche ha visto giusto in un duplice senso: non solo perché è facile che la credenza nel Dio/spirito scompaia, ma anche perché, se la conoscenza di Dio come spirito si mostra solo con la presenza dello spirito in noi, si può a buon diritto sospettare che un Dio non vi sia affatto di per sé, ma sia soltanto un nostro prodotto - possibilità, questa, di quell' ateismo che solo i mistici conoscono, ben più serio e terribile dei vari ateismi positivista, marxista, ecc.

“Io so che senza me Dio non può vivere un attimo/ se io mi annullo, deve di necessità morire” : così , nel breve spazio di un distico, Angelus Silesius sintetizza la mirabile, paradossale esperienza del generarsi dello spirito. Dio come spirito non sussiste senza l'uomo, ed è ad un davvero cruciale passo giovanneo, quello sulla morte di Cristo, che sulla croce parèdoken to pneuma, esalò lo spirito, che il poeta allude quando parla del morire di Dio. Nell' annullamento dell' egoità, in quella che una ininterrotta tradizione mistico-filosofica da Platone ad Hegel chiama “morte dell'anima”, scompare, infatti il Dio/altro, l'ente grosso e forte prodotto dal nostro piccolo ego, assolutamente speculare ad esso. Però questo den Geist aufgeben , esalare lo spirito, morire, si può leggere anche come un dare vita, emanare lo spirito: infatti all' annullamento dell'ego e alla conseguente morte di Dio/altro fa immediatamente seguito la presenza nell'anima di quella luce che appare non più come un Altro estraneo, ma come il nostro vero, più profondo essere.

Non più un piccolo ego, ma “la luce eterna io sono, che incessantemente risplende”, recita perciò un altro verso di Silesius, giacché lo spirito è lumen intellectus agentis, semper lucens: i mistici medievali avevano riconosciuto lo spirito, di Dio e dell' uomo insieme, in quell'intelletto attivo che Aristotele definisce eterno, èteron ghènos psychès, un altro genere di anima.

Spirito, infatti, è ciò che l'anima diviene quando è intelligenza distaccata, libera, non dipendente da volizioni e da fini, e, insieme indissolubilmente, amore del Bene in sé, senza oggetto e fine determinato. L’anima si chiama spirito, dice perciò Meister Eckhart, in quanto è distaccata dal molteplice: quando l’anima non si disperde nell’esteriorità perviene a se stessa e permane nella sua luce, semplice e pura. Il maestro dello yoga, Patañjali, gli fa eco: quando l’anima è completamente distaccata, consiste soltanto della sua pura luce.

Di contro alla illusoria libertà della psiche, che in realtà tutta dipende dal condizionamento esteriore e dai fini che interiormente la legano, solo nello spirito è davvero la libertà, e perciò anche l' apostolo Paolo, che contrappone in modo impressionante spirito a psiche, afferma che libertà v'è soltanto ove è lo spirito del Signore ( 2 Cor 3, 17).

Alla filosofia antica e alla mistica molti guardano con senso di superiorità - frutto, peraltro, di povertà di esperienza, cioè di ignoranza - e perciò luce e libertà restano loro ignote. Ignote alla psicoanalisi, tentativo fallito di fenomenologia di una psiche senza spirito, che si muove senza fine tra i mille contenuti dello psichismo, compiacendosi di se stessa, ma restando in realtà smarrita, lontana dall'essere, nella agostiniana “regione della dissomiglianza”.

Ignote anche alla religione, che per difendere il suo contenuto teologico non può esercitare fino in fondo l'intelligenza che distacca, e che perciò non comprende lo spirito, che riduce a nozione sentimentale, dimenticando che il sentimento è proprio ciò che non lascia essere lo spirito, come sottolineava Hegel, per cui anche lo Spirito Santo sfuma nella vaghezza del sentimento, ove di fatto scompare.

Psicoanalisi e religione cercano di presentarsi entrambe con una funzione arcontica, che può sembrare opposta, ma in realtà chiudono insieme la porta: non entrano e non fanno entrare, si direbbe evangelicamente, ciechi che fanno da guida a ciechi.

Privo di spirito, all' uomo non restano così che il corpo e la psiche e quindi, come fini, il piacere e la felicità. Al corpo, ai sensi, si chiede il piacere, rincorrendolo incessantemente, anche se aleatorio e sempre seguìto da quella sazietà che significa tristezza (il tedesco satt, sazio, è l'inglese sad , triste). Alla psiche si chiede la felicità, che però dipende dal continuo mutare della psiche stessa e dalle circostanze esteriori - non a caso felicità significa etimologicamente la buona sorte, la fortuna - per cui assai di rado accompagna a lungo l'uomo, come ben sapeva la sapienza antica. Non il piacere, non la felicità, ma la beatitudine è invece ciò che inerisce allo spirito, ed essa non dipende da circostanza alcuna, perché è una sorta di nuova condizione ontologica, un perenne essere nell'essere.

La discesa dello spirito dall' alto, come un vento – spiritus, appunto – e come un fuoco, narrata dagli Atti degli Apostoli, è dunque la rappresentazione simbolica di un fatto interiore, che in interiore homine soltanto si può celebrare davvero, e non solo una volta l'anno, ma sempre. “La festa dello Spirito Santo”, spiega infatti Giovanni della Croce, “avviene nella sostanza dell’anima, in cui nessuna capacità del senso può arrivare”, perché sostanza, centro o fondo dell' anima, è Dio stesso.