Cosa serve per pensare

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L'Osservatore Romano, 4 maggio 2014

di Marco Vannini

Una opinione tanto diffusa quanto superficiale considera opposti i due termini: la mistica come contraria alla razionalità. In realtà non è così, e per comprenderlo basta ristabilire il significato originale dei due termini stessi. Da un lato, infatti, la mistica non è affatto il campo dell’irrazionale, del visionario, eccetera, ma solo quello del silenzio, e non perché le manchino le parole, ma perché in essa il sapere è l’essere e l’essere il sapere. Alla domanda di Pilato su cosa fosse la verità, il Cristo non rispose, perché, come dice Hegel nel suo linguaggio speculativo, la verità non è sostanza, ma soggetto — ovvero la risposta era già stata data: «Io sono la verità», una verità che è, insieme, via e vita (Giovanni, 14, 6). Questo sapere, che è appunto una vita e un vivere, si può infatti mostrare, non dimostrare, come concludeva anche un grande logico, Wittgenstein: per questo coloro cui il senso della vita divenne chiaro non potevano poi dire quale fosse. Una frase che richiama da vicino quella di Meister Eckhart: se si chiedesse a un uomo vero perché vive, risponderebbe che non lo sa, ma che vive volentieri, «senza perché»: espressione, questa, davvero emblematica della mistica, che pone nella dimensione dell’eterno presen- te, ovvero di un presente che è, sia pure nella sua finitezza, già infinito.

«La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce, / a sé non bada, che tu la guardi non chiede» recita il poeta Angelus Silesius nei celebri versi del suo Pellegrino cherubico intitolati appunto «Senza perché». La mistica è infatti il terreno della chiarezza, della piena luce, nella quale scompaiono tutti i “perché”, ovvero si sciolgono tutti i nodi e si gode di perfetta pace.

Dal canto suo, la ragione è l’attività che incessantemente toglie via ogni finitezza, ovvero la scopre proprio in quanto finitezza, dipendente dai nostri desideri, dai nostri legami, più o meno celati. L’opera della ragione è dunque un rimuovere, un negare, ovvero distaccare, e proprio in questo sta il radicamento profondo tra mistica e razionalità, dal momento che il mistico consiste essenzialmente proprio nel distacco: il toglier via il marmo superfluo perché appaia la propria statua, il toglier via la terra che ricopre la sorgente che nel profondo di noi scaturisce, ovvero il divino che costituisce la nostra vera essenza. Non a caso Meister Eckhart ripete più volte il primato della ragione, dell’intelligenza, appunto perché l’intelligenza distacca. Alla mistica, dunque, la ragione inerisce nel suo senso più elevato, quello non di ragionamento calcolante, condizionato dal fine prefissato, che i greci chiamavano loghismòs, ma in quello di pensiero libero, senza condizionamento, senza fine determinato: lògos.

Non opposizione, dunque, ma il contrario: misticismo e razionalità so- no la stessa cosa, se presi nel loro significato autentico. E, del resto, questo è mostrato da tutta la storia del pensiero: forse che Platone, il cui Convito è il testo fondante dell’intera mistica occidentale — come giustamente scriveva Simone Weil — non è stato un grandissimo maestro di razionalità? Basta provare a leggere il suo Parmenide per togliersi ogni dubbio in proposito. E che dire di Niccolò Cusano, uno dei genii filosofici e scientifici dell’età moderna, le cui opere mostrano insieme come intelligenza speculativa e profondità spirituale procedano insieme? Lo stesso si potrebbe dire anche al di fuori dell’Europa e della tradizione cristiana: basti ricordare Le stanze del cammino di mezzo del buddhista Nagarjuna, supremo dialettico e mistico insieme.

Anche l’ultimo grande filosofo della tradizione razionalista occidentale, il cui cristianesimo è stato spesso misconosciuto, ovvero Hegel, espresse la precisa, consapevole affermazione della identità tra mistica e razionalità: di contro al banale intellettualismo di stampo illuministico, che parla di cose che non conosce, mistico — egli scrive — è un modo per chiamare lo speculativo, ovvero un pensiero capace di superare la contraddizione, come è proprio della ragione che si è fatta spirito e che quindi comprende insieme, senza confonderli, tempo ed eterno, finito e infinito, umano e divino, unità e trinità.

Alla domanda posta dal titolo di questo incontro dobbiamo perciò rispondere che la religione ha bisogno di mistica e razionalità, perché senza di esse è destinata a restare al livello di mera rappresentazione, correndo il rischio di diventare credenza superstiziosa. In divinis oportet intellectualiter versari, non ad ymaginationes deduci, ammoniva infatti uno dei grandi maestri dell’Occidente, Severino Boezio, e il mistico dottore della Chiesa san Giovanni della Croce insegna che la vera fede non dà affatto rappresentazioni, o pretesi saperi, ma, al contrario, tutti li toglie e conduce in quella notte, in quel nulla, in quel non-sapere, nel quale soltanto si mostra la luce eterna.

È vero che nella storia misticismo e ragione sono stati spesso sentiti nemici da parte di una religione intesa come complesso di dottrine, sintesi a difesa di modi di vita e di pensiero, ed è pure vero che, reciprocamente, altrettanto spesso mistici e filosofi hanno combattuto le religioni, proprio in quanto meri sistemi dogmatici, ideologici, spesso strutturati in forme di potere.

Questo niente toglie, comunque, al fatto che, nella loro più profonda essenza, mistica e filosofia siano indispensabili alla religione, come pure che — ancora una volta reciprocamente — sia loro indispensabile la religione, non in quanto complesso di dottrine, ma in quanto fede: l’attività di negazione, di distacco, di cui mistica e filosofia constano, non può infatti sussistere senza quella fede che, rivolta all’Assoluto, incessantemente toglie via il relativo.

Contro ogni banale intellettualismo, vecchio e nuovo, le Upanishad perciò ammoniscono: «Solamente quando si ha fede si pensa. Chi non ha fede non pensa. Pensa soltanto colui che ha fede».