La visione di Dio nella mistica speculativa
La visione di Dio nella mistica speculativa, in: <Servitium>, n. 169, gennaio-febbraio 2007, pp. 43-50.
Perché visione? Perché nella cultura occidentale il vedere è l’atto precipuo del conoscere.
Mentre nel mondo ebraico-islamico la conoscenza segue la modalità dell’ascolto, dato che è una conoscenza fatta di dipendenza dall’oggetto, ove quest’oggetto è soprattutto Dio – dunque una conoscenza che è sostanzialmente obbedienza, e la rappresentazione di Dio è perciò affidata alla parola, non all’immagine, che è, anzi, severamente vietata –, il mondo greco lega invece il conoscere al vedere (eîdon, io vidi, oîda, io so), per cui anche il concetto è pensato come visione interiore (eîdos, idéa).
Ricordiamo come la Metafisica di Aristotele si apra con la celebre affermazione:
Tutti gli uomini per natura amano la conoscenza, e ne è segno evidente la gioia che provano nelle sensazioni, giacché queste sono amate di per se stesse, indipendentemente dall’utilità che ne deriva, e più delle altre è amata quella che si esercita mediante gli occhi. Infatti noi preferiamo, per così dire, la vista a tutte le altre sensazioni, non solo quando abbiamo un fine pratico, ma anche quando non intendiamo compiere alcuna azione. E il motivo è che il vedere, più di ogni altra sensazione, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta, senza mediazione, una molteplicità di differenze. Gioia del conoscere, anche senza alcun fine utilitario – anzi, potremmo proprio dire “senza perché”, ovvero senza alcun altro fine che non sia il conoscere stesso – , e dunque soprattutto gioia del vedere, ossia la sensazione che più di ogni altra dà conoscenza, dalpresentandoci senza mediazione il molteplice, nelle sue infinite distinzioni, e insieme l’unità, che è nella visione.
In parallelo, nel Vangelo di Giovanni – quest’ultima espressione del genio greco, come diceva giustamente Simone Weil – il fondamentale capitolo dodicesimo, vera cerniera del libro, mette in bocca ai greci la richiesta a Filippo: «Vogliamo vedere Gesù». E, poco dopo, troviamo la vera risposta a questa domanda dei greci, quando Gesù, ancora a Filippo che gli chiede di mostrargli il Padre, replica: «Chi vede me, vede il Padre»1.
Proprio nel Vangelo di Giovanni, in cui si afferma la nozione di Dio come Spirito, che non si adora né nei templi né sui monti2, ovvero, in sostanza, che non sta in immagini e rappresentazioni, e dunque non si può neppure vedere, o comunque esperire attraverso sensazioni, è presente anche l’idea che lo Spirito non sia un’esangue, impalpabile, indistinta entità, ma si manifesti invece nell’umano, e in tutto il creato, giacché il Lógos, che è Dio, e in cui tutte le cose sono state fatte, si è incarnato, ha posto la sua dimora tra noi3.
Per un verso, perciò, la visione di Dio si configura in un modo apparentemente paradossale, giacché essa è impossibile, nel senso che nessuna visione determinata può esser presa come visione esclusiva di Dio: ciò renderebbe infatti Dio un oggetto finito, ovvero un idolo, per quanto grande, forte, straordinario, meraviglioso, terribile, ecc. lo possa immaginare. Questa è infatti la strada dell’idolatria e della superstizione, battuta dalle apocalittiche di ogni genere, alla quale Giovanni recisamente obietta che «nessuno ha mai visto Dio»4. Sotto questo stesso profilo, i grandi mistici cristiani – da Eckhart a Giovanni della Croce – risolutamente respingono tutte le raffigurazioni di Dio, frutto dell’immaginazione dell’uomo, giungendo perciò, senza timore, ad affermare che Dio, che è spirito, non può esser visto con gli occhi del corpo, ovvero può esser “visto” solo come un nulla5. L’eventuale visione di Dio come un oggetto determinato poi, se da un lato sembrerebbe confermare al dubbioso l’esistenza di Dio, dall’altro sancirebbe definitivamente non solo la finitezza di questo Dio, ma anche la sua irrimediabile alterità rispetto a chi lo vede, e, in questo senso, la “visione di Dio” non sarebbe beatifica, ma, al contrario, orrifica, giacché porrebbe irrimediabilmente nel dualismo, ove l’Assoluto è al di là, e io sono al di qua6. Non a caso, perciò, il Vangelo di Giovanni si conclude, effettivamente, con la pericope di Tommaso, ove, a una fede che si fonda sulla testimonianza sensibile, ed è dunque fede in un Dio oggetto determinato, Gesù contrappone la beatitudine di quelli che «non hanno visto e hanno creduto»7 – ossia la fede in Dio come Spirito, che non si mostra agli occhi del corpo.
Per un altro verso, però, gli stessi versetti giovannei, con l’incarnazione del Lógos, in cui tutto è stato fatto, e con l’affermazione di Gesù: «Chi vede me, vede il Padre», fanno comprendere che la visione di Dio è possibile, possibilissima in ogni istante, giacché si può vedere, conoscere, ri-conoscere Dio nel prossimo – anzi, in ogni creatura. Perciò i mistici che abbiamo poco sopra citato sembrano8 contraddire, in modo più o meno esplicito, la costituzione Benedictus deus di papa Benedetto XII, nel 1336, che escludeva la possibilità di una “visione beatifica” già al presente9 in questa vita. Le due cose sembrano contraddittorie, ma in realtà non lo sono. La contraddizione si risolve infatti appena si sposti l’accento dal l’oggetto della visione al soggetto che vede: la visione di Dio non è la visione dell’oggetto Dio, ma il modo di vedere di Dio, che l’uomo fa proprio10.
In questo senso uno dei testi più noti di Eckhart recita infatti: L’occhio nel quale io vedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede: l’occhio mio e l’occhio di Dio non sono che un solo occhio, una sola visione, una sola conoscenza, un solo amore11.
Vedere, conoscere e amare sono qui strettamente legati – anzi, fanno un medesimo atto12. È l’atto specifico del distacco, che è amore disinteressato per tutto, e dunque guarda tutte le cose “senza perché”. È il guardare le cose con l’occhio stesso di Dio – per così dire –, in quanto è sguardo colmo di tenerezza per il loro essere, che è visto sub specie aeternitatis, e in questo senso è la visione di Dio – e qui il genitivo è soggettivo e oggettivo insieme: soggettivo perché è, appunto, il guardare il mondo al modo di Dio, ma anche oggettivo perché ogni creatura è piena di Dio13 e nella creatura si mostra visibilmente il Dio invisibile.
Non occorrono perciò “rivelazioni” o “visioni” particolari, verso le quali anzi i grandi maestri nutrono un sano e salutare sospetto14, perché è il quotidiano, il qui e l’ora, queste cose presenti di fronte a noi, a costituire il divino che si mostra al nostro sguardo, ovvero al nostro amore, e ciò avviene del tutto senza sforzo, appena ti distacchi da te stesso, ovvero dalla volontà propria.
Questa esperienza è universale, appartiene all’occidente come all’oriente: anche il buddhismo insegna che, se ti distacchi, coincidi immediatamente con il perfetto, e, in parallelo, il samsara, la vita quotidiana, coincide immediatamente con il nirvana, con l’assoluto. Però la mistica cristiana ha di specifico un elemento dialettico, di movimento e vita, che è quello propriamente spirituale, giacché avverte sempre uno scarto tra l’assoluto del e nel presente e quell’Assoluto, quell’Infinito che è comunque sempre oltre, sempre al di là, e solo in riferimento al quale è possibile mantenere il distacco e non appiattirlo in una soddisfazione che diventa immediatamente stanchezza15: perciò Eckhart scrive che non v’è uomo tanto distaccato che non possa distaccarsi ancora, ed insegna che solo Dio, che è “supremo distacco”, può compiere nell’uomo il distacco16. Infatti v’è distacco solo quando lo sguardo – ovvero l’occhio dell’intelligenza che è amore, e dell’amore che è intelligenza – si rivolge all’Assoluto, a Dio, non connotato in alcun modo perché non corrispondente ad alcun bisogno psicologico, e dunque a Dio come Nulla.
È allora che avviene quello che Eckhart afferma: l’occhio mio diventa l’occhio di Dio; una sola visione, una sola conoscenza, un solo amore. Perché lo sguardo “semplice” rivolto all’Assoluto sine modis nulla vede, ma solo una pura luce17, ed essa si riflette immediatamente sullo sguardo stesso di chi guarda, che è anch’esso nulla. Perciò quel che davvero sussiste non è né il vedente né il veduto, ma l’atto del vedere e, insieme, dell’esser veduto, ovvero il movimento stesso della luce, che tutto pervade.
Lo esprime con chiarezza l’immagine che spesso si trova nei sermoni di Eckhart: Nelle cose spirituali una è sempre nell’altra: ciò che riceve è identico a ciò che è ricevuto, giacché non riceve niente altro che se stesso [...].
Si ponga uno specchio davanti a me: che lo voglia o no, senza volontà o conoscenza di me stesso, io mi rifletto nello specchio. Quest’immagine non proviene dallo specchio, né proviene da se stessa, ma piuttosto proviene da ciò da cui riceve il proprio essere e la propria natura [...].
Io dico proprio lo stesso per l’immagine dell’anima. Ciò che esce è identico a ciò che rimane all’interno e ciò che rimane all’interno è identico a ciò che esce. Quest’ immagine è il Figlio del Padre e io stesso sono questa immagine18.
L’essere l’immagine dell’anima il Figlio, il Lógos, non significa, peraltro, una panteistica confusione tra io e Dio:
Prendo una bacinella con dell’acqua,vi metto dentro uno specchio e lo pongo sotto la sfera del sole. Allora dal suo disco e dal suo fondo il sole vi getta la sua chiara luce, e tuttavia non vi si perde. Il raggio di riflesso dello specchio nel sole è sole nel sole, e tuttavia lo specchio resta quel che è. Lo stesso è per Dio. Dio è nell’anima con la sua natura, col suo essere e con la sua Divinità, e tuttavia egli non è l’anima. Il riflesso dell’anima è Dio in Dio, e tuttavia essa resta quel che è19.
Affrontando specificamente il tema del “vedere Dio”, nel sermone «Modicum et non videbitis me» il maestro domenicano scrive: Se devo conoscere Dio, bisogna che ciò avvenga senza immagine, senza mediazione alcuna […]. Se devo conoscere Dio senza mediazione, senza immagine e senza somiglianza, devo diventare assolutamente Dio e Dio deve diventare assolutamente me20.
Questo significa precisamente che non v’è visione/conoscenza di Dio come oggetto-Altro, di cui ci si possa fare una rappresentazione: v’è un vedere/conoscere solo quando v’è un essere. Perciò il mistico poeta, fedele interprete di Eckhart, canta: Nulla in Dio si conosce. Egli è un unico Uno.
Quel che in lui si conosce, questo bisogna essere21. Essere Dio, diventare Dio: questo il linguaggio che il mistico non teme di usare, ben consapevole che non si tratta di uno sciocco e blasfemo elevarsi al rango dell’Ente supremo, come le menti rozze possono credere, bensì, al contrario, di farsi nulla, annientarsi in quanto egoità (eigenschaft) e così riconoscersi come spirito, ovvero spirito nello Spirito.
In quanto Dio è Spirito – non un oggetto o un ente22 – esso deve di necessità spirare. Questo il senso dello straordinario distico silesiano:
Io so che senza me Dio non può vivere un attimo Se io mi anniento, deve di necessità esalare lo Spirito23. Al divenire nulla (zunicht werden) dell’uomo, corrisponde, di necessità24, l’esalare lo spirito da parte di Dio. Questo esalare lo spirito (den Geist aufgeben) è il “morire” di Dio in quanto Altro, ma è anche l’emanare lo Spirito, in corrispondenza precisa con il versetto giovanneo 19, 30, ove è scritto che Gesù, morendo, parédoken tò pneûma, ovvero esalò lo spirito, cioè morì, ma anche emanò lo Spirito, che può esservi solo quando Dio “muore”. Perciò i mistici tedeschi ripetono che Dio “dipende” dall’uomo: Se io non fossi, neanche Dio sarebbe: che Dio sia Dio, infatti, io sono una causa e, se io non fossi, Dio non sarebbe Dio25.
La frase non ha, ovviamente, un senso feuerbachiano ante litteram, quasi che Dio fosse una proiezione dell’uomo. Essa si comprende invece correttamente all’interno del testo, che è un sermone sulla povertà, che Eckhart spinge fino all’estremo, ovvero a quello spogliamento totale di se stessi, a quel farsi nulla – nulla sapere, nulla volere, nulla essere – in cui l’uomo diventa uguale alla verità26. Come si è detto, infatti, è il guardare a questo nulla, questa “morte”27, che costituisce il “vedere Dio”, ove il vedere è un conoscere, ed un conoscere perché un generare, secondo quella profonda parentela che sussiste in greco tra ghíghnomai e ghighnósco, tra generare e conoscere, per cui si conosce davvero solo quel che si genera, ovvero quel che proviene da noi28, e Dio non è un ente, ma lo Spirito29, movimento e vita.
Dunque noi “vediamo” Dio nel momento in cui lo conosciamo, ovvero lo generiamo, cioè in quella che i mistici chiamano la generazione del Lógos: generazione che non è avvenuta solo una volta in Betlemme, ma che avviene in ogni istante nell’anima nostra, quando essa si rivolge con amore/distacco alla luce eterna – giacché allora essa diviene la luce eterna. Perciò il mistico poeta non teme di cantare: Io sono la luce eterna, che brucia ininterrotta30.
Concludendo il sermone «Modicum et non videbitis me» che abbiamo poco sopra ricordato, Eckhart parla della luce della grazia, ovvero della luce divina in cui si vede Dio e, citando san Paolo, «Dio abita all’interno di una luce cui non v’è accesso»31, scrive significativamente: «Non v’è un accesso, ma solo un esservi giunti»32 – ovvero non v’è una via che conduce a Dio, come se si trattasse di una meta da raggiungere, ma v’è piuttosto un essere spirito, e dunque un essere in Dio, luce nella luce.
Note
1 Giovanni 14, 9.
2 Ivi 4, 22.
3 Ivi 1, 1-14.
4 1Giovanni 4, 12.
5 Cf., ad es., il sermone 71 di Eckhart, «Surrexit autem Saulus» (I Sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline, Milano 2002, pp. 488-496). Vedi anche, sempre di Eckhart: Il nulla divino, a cura di M. Vannini, Mondadori, Milano 1999. Gli fa eco Angelus Silesius: «Dio è un puro nulla, il qui e l’ora non lo toccano: / Quanto più vuoi afferrarlo, tanto più ti sfugge» (Il pellegrino cherubico, a cura di G. Fozzer e M. Vannini, San Paolo, Cinisello Balsamo 1989, I, 25). Superfluo indicare il rilievo della tematica del nulla, e del “vedere Dio” come nulla in san Giovanni della Croce.
6 «Non ha l’uomo perfetta beatitudine / Se prima l’unità non ha risucchiato l’alterità», canta Silesius (Pellegrino cherubico, cit., IV, 10).
7 Cf. Giovanni 20, 29.
8 In realtà essi non si pongono contro quella costituzione, il cui senso è esclusivistico, mentre il loro non lo è affatto. Sarebbe più corretto dire che stanno parlando un linguaggio diverso, ed anche di cose diverse, rispetto a quelle della costituzione.
9 Tra le molte possibili, ci limitiamo qui a due citazioni da Silesius, Pellegrino cherubico VI, 115: «Tu dici che vedrai un giorno Dio e la sua luce: / Stolto, giammai la vedrai se non la vedi già ora», e I, 295: «Se non avrai prima in te, uomo, il Paradiso, / In Paradiso, credimi, non arriverai mai».
10 Ricordiamo che questo è il tema specifico dell’opera di Niccolò Cusano, intitolata appunto La visione di Dio, tutta di impostazione eckhartiana. La si può leggere anche nell’edizione Mondadori, Milano 1998, a cura dello scrivente. Ricordiamo anche come la concezione della verità non tanto come sostanza quanto, essenzialmente, come soggetto – ovvero la concezione dell’ Assoluto come Spirito – sia riconosciuta da Hegel come appartenente al cristianesimo (cf. Fenomenologia dello spirito, Prefazione, vol. I, p. 19 dell’ed. it., La Nuova Italia, Firenze 1960).
11 Cf. sermone 12, «Qui audit me», in Meister Eckhart, I Sermoni, cit., p. 172. La frase fu censurata nel processo che il maestro domenicano subì a Colonia. Nel suo Commento all’Ecclesiastico, 25, Eckhart si appoggia all’autorità di Agostino, De Trinitate 9, 2, 2, per sostenerla.
12 Intelligenza e amore sono infatti i due occhi dell’anima, che, insieme, fanno lo sguardo “semplice” , secondo la nota immagine antica, ripresa dai medievali: vedi la conclusione dello Specchio delle anime semplici di Margherita Porete.
13 «Ogni creatura è piena di Dio, ed è un libro», scrive infatti Eckhart («Quasi stella matutina », in I Sermoni, cit., p 152); e Silesius gli fa eco: «La creazione è un libro: chi in sapienza lo legge / Vi trova perfettamente rivelato il Creatore» (Il pellegrino cherubico, cit., V, 86).
14 Basti qui citare san Giovanni della Croce, ad es., nella Salita del Monte Carmelo, II, 11, 7- 8, e II, 16, 6.
15 Si pensi al tedesco satt, sazio (latino satis) che diventa sad, cattivo, in inglese.
16 Cf. la conclusione del trattato «Del distacco», in Eckhart, Dell’uomo nobile, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1999, p. 146.
17 Cf. Plotino, Enneadi VI, 7, 36: «La vista, avvicinandosi alla luce, non si limita a far vedere agli occhi un oggetto differente da essa; l’oggetto che si vede è la luce stessa. Non c’è allora un oggetto che vede e una luce che lo fa vedere, come non v’è una intelligenza e un oggetto pensato, ma una pura luce che genera intelligenza e oggetto». Come in ogni mistica, perciò, l’Uno «è insieme oggetto amato, l’amore stesso e l’amore di sé» (Enneadi, VI, 8, 15).
18 Cf. sermone 16a, «Quasi vas auri solidum», in I Sermoni, cit., p.
191s. 19 Cf. sermone 100, «Nolite timere eos», in I Sermoni, cit., p. 623s.
20 Cf. ancora I sermoni, cit., p. 485s.
21 Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, cit., I, 285.
22 «Dio è un ente solo per i peccatori», afferma Eckhart nel Commento alla Genesi, n. 211.
23 Il pellegrino cherubico, cit., I, 8.
24 Perciò i mistici tedeschi usano spesso forti espressioni come «Dio deve» (Gott muß), «di necessità» (von Not), «lo voglia o no», ecc., che, ovviamente, non indicano affatto una costrizione per l’Onnipotente, ma una fenomenologia dello Spirito.
25 Cf. sermone 52, «Beati pauperes spiritu», in I Sermoni, cit., p. 395.
26 Cf. ivi, p. 396.
27 Su questo tema, cf. il mio La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Le Lettere, Firenze 2004.
28 Solo quella che proviene dal fondo di noi stessi è opera divina, ripete spesso Eckhart nel Commento al Vangelo di Giovanni, nn. 19, 62, 311, 340, 565, ecc. E, nel sermone «Haec est vita eterna», scrive: «Perché chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che esso ha di più intimo, deve prima penetrare nel suo fondo proprio, in ciò che esso ha di più intimo. In effetti, nessuno può conoscere Dio se prima non conosce se stesso» (cf. I Sermoni, cit., p. 408).
29 Nella Quaestio parisiensis I, Utrum in Deo sit idem esse et intelligere, Eckhart afferma che non Dio pensa perché è, ma che è perché pensa, giacché «Dio è pensiero e pensare (intellectus et intelligere), ed è il pensare fondamento dell’essere stesso» (cf. M. Vannini, Meister Eckhart e il fondo dell’anima, Città Nuova, Roma 1991, p. 125).
30 Il pellegrino cherubico, cit., I, 161.
31 Cf. 1Timoteo
32 Cf. I Sermoni, cit., p. 486.