Una voce fuori dal coro

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di Sergio Massironi, in: <L'Osservatore Romano>, venerdì 10 marzo 2017.

Critica a Lutero in nome della mistica

A cinquecento anni dalla Riforma protestante, quella di Marco Vannini è una voce fuori dal coro. Ed ecco Contro Lutero e il falso evangelo, (Firenze, Lorenzo de’ Medici Press, 2017, pagine 112, euro 12) il libro con cui si propone di rovinare la festa, non senza stimoli per la riflessione di tutti. «Mentre il mondo laico saluta in Lutero il fondatore di quell’individualismo di cui vive, le Chiese celebrano in lui un cristianesimo del mero sentire, senza spirito e senza verità». L’autore ha ben chiaro ciò che evangelo non è. Come il titolo lascia intuire, la sua non è ricerca, ma polemica. Vannini ha trovato: «L’evangelo è l’annuncio del Bene, della luce, presente in noi stessi. Non è il rimando a una esteriorità teologica». Duemila anni vengono tagliati col bisturi di un’unica idea: «Dalla filosofia, dalla più alta saggezza, abbiamo appreso che la nostra vera natura è spirito». All’evangelo non occorre alcuna rivelazione; Gesù stesso incarna una sapienza universale, che nel pensiero greco ha la massima espressione. «Chi può dire, come Cristo, “Io e Dio siamo una cosa sola”, “Io sono la luce”, “Io sono la verità”, solo costui può a buon diritto parlare di evangelo». Invece, il desiderio della salvezza nega che chi vorrà salvare la propria vita la perderà. Il Nuovo Testamento è fatto a pezzi, perché ne emerga il Gesù voluto, predicatore del distacco da sé oscurato dai teologi, Paolo in primis. «L’uomo distaccato abbandona il pensiero di Dio-altro, di Dio-ente, (“Prego Dio che mi liberi da Dio”), e sta nell’Uno, tanto da non pensare e nemmeno esprimersi facendo riferimento a Dio e al divino come a un qualcosa di a sé stante, diverso e separato dall’uomo e dall’umano, dalla natura e dalle cose del mondo». Vannini annuncia la buona notizia: «Senza Dio, senza questo supremo appiglio e legame, si è finalmente liberi». Di conseguenza, Lutero diventa un nemico, come gli autori dei due Testamenti e in generale tutto ciò che è ebraico. Il volume sprigiona un antigiudaismo non più usuale dopo le tragedie novecentesche: «Nell’esperienza della morte dell’anima, del piccolo ego, Gesù rigetta Mosè e la sua Legge, prende le distanze dagli ebrei, bugiardi e figli del demonio, padre della menzogna (i quali, peraltro, lo ricambiano pienamente, odiandolo e cercando di farlo morire) e proclama la sua eternità (...) Il dio platonico è l’opposto di quello biblico».

Per l’autore il problema consiste «nel fatto che la buona novella nei vangeli è ancora intrisa della mitologia giudaica, fondata sull’alterità di Dio, ed è perciò mescolata con quella cattiva», sebbene il lieto annuncio traspaia particolarmente in Giovanni, «intriso di filosofia greca e libero dal dualismo biblico». Vannini dichiara guerra alle Scritture, e così alla Riforma, radicalizzando l’opposizione letteraspirito, per deplorare come i testi sacri siano accomunati nell’identica menzogna: il rafforzamento dell’ego tramite l’appropriazione di un valore assoluto. Si scambia per divino ciò che è psichico: il sentimento al posto dello spirito. «Ciò è evidente al massimo grado in Lutero, in cui la fede è la credenza, la certezza psicologica che Gesù Cristo ha preso e prende su di sé il peccato dell’uomo e lo giustifica, lo salva. Di questa invenzione è chiaro l’utile: siamo liberi di fare quel che si vuole, dato che Cristo “ricopre” i nostri peccati, alla sola condizione che si “creda” in lui. Credendo di essere giustificati sola fide se ne va ogni virtù, ogni valore bollato come presunzione, vanità, ma soprattutto se ne va la verità». Così, «queste assurdità vanno difese negando la ragione, avvilendola come incapace e presuntuosa e, con un rovesciamento ipocrita, esaltando al suo posto la presunta fede. V’è in ciò una violenza implicita e ineliminabile». Per Vannini, Lutero è «un campione di violenza, uno dei più grandi bugiardi della storia delle religioni che, pure, di bugie è intessuta».

Occorre riconoscere all’autore la capacità di accendere i riflettori su elementi sempre più rimossi della personalità di Lutero. L’urto con la veemenza e le contraddizioni intellettuali e morali del riformatore trattiene il lettore di oggi dal farne ingenuamente un santo, imponendo una lettura del passato che dalle scomunichenon scivoli nell’idealizzazione. Pur con discutibili intenti, Vannini ci riconsegna una storia in cui volgarità, miseria e calunnie hanno lacerato la Chiesa e scatenato repressione e barbarie. Su un punto la memoria si fa severa: «Questo continuo sciacquarsi la bocca con la “parola di Dio”, che è poi quella a piacere di ciascuno, è il tratto veramente insopportabile di Lutero e dei suoi seguaci». Il volume documenta un uso strumentale, delirante, del testo sacro: un parlare vanamente in nome di Dio che sarebbe nel codice genetico di ogni rivelazione. Paradossalmente, l’autore assorbe i tratti del suo avversario: «La Scrittura serve a Lutero a dimostrare quel che vuol dimostrare (...) Lutero aveva predicato il libero esame, ma in realtà l’esame valido era uno solo: il suo».

Vannini rischia di fare lo stesso. Ci importa, però, la gravità della tentazione. È possibile smentire l’equazione rivelazione- violenza? Esiste un rapporto non idolatrico con testi che documentino il sorprenderci, il “prenderci da sopra” di Dio? Sono domande che la teologia deve trattenere.

Il volume esalta la corrente mistica che, come un fiume carsico, attraversa la storia del cristianesimo. Contro Lutero, «il mistico pensa che la Parola di Dio non si oda ascoltando la Bibbia, leggendo la Scrittura, ma facendo il vuoto interiore, il silenzio». Tuttavia, quante delle figure evocate sottoscriverebbero l’idea che un Dio che parla è ingenua superstizione? «Dio non parla, non proferisce parole: se è Parola, è Parola non pronunciata, vera non quando la si ascolta, ma quando la si proferisce. Può farlo solo chi diventa ed è quella Parola». Diventare Dio: la deificazione dell’essere umano non è univocamente riducibile al panteistico «Tutto è Uno». Il linguaggio dell’amore e dell’unione estatica viene da Vannini schiacciato sul piano teoretico, l’unico degno di definirsi spirituale giacché la verità pertiene all’intelletto, fuori dal quale solo psichismo e sentimento. Cade così ogni differenza ontologica. Per quanto sia effettiva la tensione tra Scolastica e neoplatonismo, tra istituzione e mistica, separare certi autori dall’ortodossia è operazione anacronistica, ideologica, concepibile solo a posteriori. Tre provocazioni risultano tuttavia salutari. Anzitutto, leggiamo, «col protestantesimo la menzogna ha preso la veste laica della coscienza e a stabilire i valori non sono più i preti ma gli psicologi, che svolgono la stessa funzione alienante dei teologi, in quanto offrono alimento all’ego e alla sua affermatività». Tra spiritualità e psicologia, effettivamente, permangono separatezza o confusione, spesso ai danni della prima. Il problema è che «i contenuti psicologici sono sempre tutti veri, insieme al loro contrario, e così si può speculare sulla sofferenza di tanti»: che cosa ha da dire il cristianesimo su questo? Quale interiorità le Chiese coltivano nei fedeli? Con quali strumenti? Ed ecco la seconda provocazione: «Con la moderna secolarizzazione e il progressivo regresso delle Chiese cristiane verso la matrice ebraica, oggi prevale la “buona” novella di carattere sociale: emancipazione dei poveri, liberazione degli oppressi, instaurazione di una società giusta e felice. Il regno dei cieli si è così trasferito sulla terra e, in parallelo, il lieto annuncio della vita beata in paradiso è diventato quello di una comunità giusta e felice sulla terra». Davvero è così? Ci può essere ecumenismo senza percezione del “non ancora”, quindi della relatività di tutte le configurazioni storiche del pensiero e della convivenza? La matrice ebraica, contrariamente alle convinzioni di Vannini, è intessuta di attesa, di vuoto, grazie alla differenza e alla non manipolabilità di Dio. Quale escatologia, allora? Infine, in un mondo deturpato da muri e disuguaglianze,come rispondere a un autore che afferma: «È nel distacco che si fa esperienza della vacuità di quel mero susseguirsi di sensazioni, volizioni, pensieri, che solo per una sorta di praticità linguistica riportiamo a un soggetto, a un io»? Per Vannini, pensare «Sono io che agisco» è possibile solo a menti offuscate. Il cristianesimo fonda invece così la responsabilità, che induce anche a decise inversioni di rotta. Alle Chiese il compito di documentare come la deriva individualistica sia, non da oggi, agli antipodi dell’ortodossia. Vannini con l’io rigetta il corpo, il determinato, il contingente: «Io non sono questo individuo tangibile e che cade sotto i sensi, ma un essere ben lontano dal corpo, senza colore e senza forma, che nessuna mano può toccare e che solo il pensiero può cogliere». Noi pensiamo diversamente. È vero: il vangelo supera Lutero stesso e non solo copre i peccati, ma trasforma chi dimentica se stesso in Colui che incontra. Divinizza, ma perché sorprende. Incarnazione e risurrezione scolpiscono la nuova percezione che ciascuno ha di sé, degli altri, del destino.


Il nucleo dell'Evangelo

di Marco Vannini, in: <L'Osservatore Romano>, mercoledì 15 marzo 2017.

Replica su Lutero e la mistica

Nell’articolo di Sergio Massironi sull’Osservatore Romano del 10 marzo, a proposito del mio Contro Lutero e il falso evangelo (Firenze, Lorenzo de’ Medici Press, 2017, pagine 176, euro 12), la tesi centrale del libro, che nasce da una frequentazione di mezzo secolo con la mistica — soprattutto tedesca, prima e dopo Lutero (oltre che con Lutero stesso) — non è stata messa bene in luce. La tesi è questa: il riformatore ha prima compreso l’Evangelo, ma poi lo ha completamente stravolto.

Lutero stesso, infatti, ci fa sapere che sono stati Giovanni Taulero, discepolo di Meister Eckhart, e l’Anonimo Francofortese, autore del Libretto della vita perfetta, che egli stesso fece mettere a stampa con il titolo, da lui inventato, di Theologia deutsch — ovvero la mistica medievale germanica — a fargli comprendere il nucleo dell’Evangelo. Tale nucleo è la fine dell’amore di se stessi, il distacco dall’egoità, sempre appropriativa, sempre egoistica («Chi vuole essere mio discepolo, rinunci a se stesso»), perché così e solo così si ha l’apertura alla grazia, alla luce divina, il generarsi del Logos, del Cristo, nell’anima, con tutta la beatitudine che ne consegue. Come però era già avvenuto prima, e come avverrà anche in seguito, in Lutero diventato il riformatore questa esperienza diventa motivo di orgoglio, di esaltazione dell’egoità, che rinasce elevata per così dire a potenza.

Così, dalla humilitas dell’uomo povero in spirito delle beatitudini, che per la mistica tedesca «nulla è, nulla vuole, nulla sa», si passa all’egoità ipertrofica, che vuole essere, affermarsi, permanere, e deve perciò necessariamente appoggiarsi a un contenuto, a un sapere posseduto. Lutero fonda questo sapere nella Scrittura, secondo quel che serve alla propria costruzione teologica, ovvero al proprio io psicologico, e perciò stesso posta in antitesi alla ragione universale, alla filosofia, che viene da lui rigettata e bollata con parole di fuoco (la «puttana del diavolo», e così via).

Mentre Eckhart non temeva di scrivere che i filosofi antichi, i “maestri pagani”, conobbero la verità prima della fede cristiana, per Lutero tutti quelli che non seguono il “suo Evangelo” (suo, appunto), sono malvagi, dannati: da Aristotele a Tommaso d’Aquino, da Erasmo da Rotterdam a Thomas Müntzer e altri: tutti i pagani, tutti gli ebrei, e via di seguito. Non meraviglia che, dopo Lutero, anche protestanti come Denck, Franck, Weigel, Kierkegaard — e prima di tutto, il maestro stesso del riformatore, il dottor Staupitz, che non a caso rimase cattolico — comprendessero che questo era lo stravolgimento dell’Evangelo.

E qui la questione va oltre Lutero e ci riguarda pienamente. Nel vero Evangelo non c’è un Dio geloso, che sceglie questo o quello, popoli o persone che siano, che parla una volta sì e una no; non c’è un Dio che «manda il bene e il male», come quello biblico, ma un Dio luce eterna, che risplende come il sole sui giusti e sugli ingiusti, e da cui viene solo il bene, perché è il Bene, come il Dio di Platone.

Il vero Evangelo è il davvero lieto annuncio che Dio, la luce eterna, è presente, sempre e comunque: tutto e tutti illumina, si comunica a chiunque rivolga l’anima intera verso la luce, faccia il vuoto in se stesso, come già aveva compreso la filosofia antica: basti pensare al plotiniano «distàccati da tutto». Perciò Simone Weil poteva dire che l’Evangelo è l’ultima espressione dell’amore di verità, dell’onestà, del mondo greco. Nel mondo cristiano il messaggio evangelico è stato mantenuto dalla mistica, unica vera prosecuzione della filosofia classica, fondata sul distacco (si vedano gli studi di Pierre Hadot).

Il falso Evangelo è, invece, fatto di contenuti sociali, politici, religiosi, determinati in un tempo e un luogo; costituito come una teologia, che parla dell’origine dell’universo, dei disegni divini, del senso della storia, un po’ di tutto. Questa commistione, che è in quanto tale anche una esclusione, perde l’universalità e rende il messaggio non più “buona novella”, ma un mero sostegno dell’egoità particolare, variabile a piacere — dunque l’opposto del vangelo vero.

Come infatti notava già Maritain, Lutero ha fondato l’individualismo, malattia mortale della nostra società, e, dando il bando alla filosofia, ha aperto la strada a quello psicologismo che oggi imperversa.

Ma una religione del sentimento, senza razionalità, dunque senza spirito, finisce necessariamente nel primato dei sensi e lì evapora, svanisce, come è già avvenuto nel mondo protestante (in Svezia ormai solo il due per cento della popolazione è cristiano) e si rivolge anzi contro Cristo e l’Evangelo.

Questa, in estrema sintesi, è la tesi centrale del libro, per tanti versi “inattuale”, nel senso nietzschiano del termine, ma — forse — non “inattuale” religiosamente.