De profundis per l’anima
Avvenire - Agorà, 28 giugno 2003
di Maurizio Cecchetti
Lo storico della mistica Marco Vannini traccia l'orizzonte della crisi religiosa dell'Occidente
Il secolo della «morte di Dio», secondo l'apocalittico annuncio di Nietzsche, può essere anche visto come il secolo della «morte dell'anima». Se si considera il precetto delfico «Conosci te stesso e conoscerai te stesso e Dio», si può vedere al fondo di questa prospettiva cosmica (o abissale, a seconda di quale sia il punto d'osservazione) un orizzonte di contrasto di ciò che è stato il cammino dell'Occidente verso ciò che oggi più spesso appare: culto della potenza e della forza. Marco Vannini, insigne studioso della mistica cristiana, ha dato al suo ultimo libro il titolo che raddoppia, in un gioco speculare, la profezia dl Nietzsche. Non è forse quello dell'immortalità dell'anima un principio cardine della metafisica occidentale fin dalle sue sorgenti greche?
Nel culmine del suo itinerario, mentre si appresta a trattare il pensiero di Spinoza, Vannini lancia un monito decisivo che riprende un'affermazione nicciana: «Lasciata l'anima è rimasto il corpo, e il tempo del corpo è, come puntualmente si è verificato, il tempo della negazione della ragione, dei valori e della virtù, il tempo dell'esaltazione dell'istinto, dell'irrazionale». C'è, in questa affermazione, quella dimensione gnostica che Jean Guitton, con simpatia critica, vedeva all'origine di un «partito dei puri». Quel partito che Guitton rimette alla visione catara, radicale, a suo modo rivoluzionaria. Il Novecento è stato, in effetti, un tempo di catarismo ideologico, e non a caso è in questo secolo che maggiormente il corpo, i diritti del corpo, sono proclamati e crocifissi, esaltati e offesi, mitizzati e vanificati. Dunque, il corpo è la grande questione aperta di un secolo che ha avuto un legame "appropriativo" — per usare un termine che Vannini adopera ripetutamente per definire il peccato supremo di una concezione dell'io totalitaria e deterministica con la realtà e il mondo, inclinando verso la dimensione irreligiosa.
Sgombriamo il campo dall'equivoco: questo saggio di Vannini non sostiene la mortalità dell'anima come seconda morte dopo quella del corpo, se non per come questo corpo, si verifica proprio nel massimo sforzo di appropriazione che l'io occidentale compie verso Dio. Qui subentrano riflessioni che conosciamo sulla riduzione dell'essere all'ente (Heidegger), e poiché il corso storico del pensiero occidentale è fortemente segnato dalla riduzione di Dio all'essere, ecco che la conseguenza di questo passaggio è una riduzione ulteriore di Dio all'ente, al Dio-oggetto, cioè il massimo peccato per un credente, poiché la fede è piuttosto la sintesi del distacco e della fiducia.
Vannini ripercorre il discorso sull'anima di Platone (diventare «giusto e santo con l'aiuto della ragione», si dice nel Teeteto, delineando la «via del distacco» e della purificazione, per «diventare simili a Dio»), di Aristotele, che vede anima e corpo saldamente uniti, ma distingue un'anima mortale dall'immortalità del nûs, poiché l'intelletto è il costitutivo dell'uomo, e così via attraverso Epicuro, Plotino, gli Stoici, Paolo, Giovanni, Agostino fino a Tommaso. Ma il centro della riflessione, che è anche il cuore del lavoro pluriennale di Vannini, è Meister Eckhart e la categoria del distacco dalle cose, dalle passioni, dove evidentemente lo stoico prepararsi a morire diventa il «morire prima di morire», cioè il distacco dai sensi e da tutte le potenze dell'anima; distacco anche da Dio, nel senso eckhartiano secondo cui «Dio è una Parola non pronunciata». L'obiettivo di superficie è una critica dello psichismo contemporaneo «ovvero la morte dell'anima(lità)», per ritrovare una verità forte, che il relativismo materialista di oggi tende a ridurre a «operatività», cioè a potenza e forza. L'obiettivo più profondo è quel «governo degli affetti» , per disinnescare il congegno di un io tirannico «che non arretra di fronte a nulla». Preservare l'essere dell'anima dagli appetiti dell'io significa anche preservare Dio da ogni riduzione di un pensiero della potenza e della forza. A questo sforzo di liberazione dell'anima dalle servitù di un pensiero totalitario, si può forse obiettare che il cristianesimo è lo spazio dell'incarnazione e, per citare ancora Guitton, l'incarnazione è un «laboratorio per i germi». La sfida, in definitiva, non è nella purificazione dall'impuro, ma nella bonifica di questa impurità verso cui tende in effetti l'ideale salus et beatitudo che sostanzia la cura dell'anima.