Sperimentare il divino

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di Gianfranco Ravasi, Sperimentare il divino, in: <Il Sole-24 Ore>, domenica 4 aprile 2004.

Una rassegna completa di Marco Vannini sulla mistica nelle fedi del mondo
Lo studioso naviga sul pericoloso crinale tra soprannaturale e naturale, esaminando testi dello chassidismo ebraico, il sufismo, ma anche il concetto di superstizione

Anche un teologo misurato come Bruno Forte si è domandato se Marco Vannini, grande studioso di letteratura mistica, possa ancora dirsi cristiano. Il suo nuovo e vasto saggio sulla Mistica nelle grandi religioni certamente ribadirà i sospetti dei teologi di professione. Il filo conduttore della sua panoramica può, infatti, essere illustrato dalla frase di Giovanni Scoto Eriugena posta in esergo all'opera: «Dobbiamo comprendere Dio e la creatura non come due realtà tra loro distanti, ma come una sola e medesima cosa». Già nelle prime righe si ribadisce che la mistica è «l'esperienza dell'unità dell'essere: unità di uomo e Dio, Dio e mondo, e dunque unità anche uomo-mondo». Questa ablatio alteritatis tra Dio e l'anima e il mondo collide però con la dottrina cristiana, anche se è pur vero che il concetto di "identità" può essere meno univoco e radicale e non costringere a procedere speditamente verso il panteismo o l'immanentismo.

Certo è che lo studioso fiorentino naviga nei mari spirituali delle cinque grandi religioni mondiali tenendo ben stretta questa barra ermeneutica, talora forse con qualche concordismo (ad esempio, l'amatissimo Meister Eckhart diventa pietra di paragone o forse strumento interpretativo anche per il remoto induismo, come la tematica "kenotica" paolina sullo "svuotamento" del Verbo incarnandosi è allineata alle tematiche del vuoto e del nulla del buddhismo giapponese). Certo è che l'asse fondamentale permane quello dell'unità finito-infinito; tuttavia esso è riconosciuto come vincolato in un rapporto dialettico, anche perché «mistico non significa misterioso, ma supremamente razionale, dialettico, speculativo». In questa luce l'autore sembra sorvegliarsi, a nostro avviso, per evitare ogni eccesso di "confusione" panteistica. Interessante è anche, in questa linea, il concetto di superstizione che - secondo Vannini - è «ogni pensiero del divino separato dalla necessaria consapevolezza dell'umano, ovvero posto tutto in altro, senza il momento della finitezza, senza dialettica, e dunque incompleto, privo di verità».

Rimane, comunque, la delicatezza di questa posizione da crinale che sembra sempre in procinto di vanificare la distinzione tra trascendenza e creaturalità, tra soprannaturale e naturale, tra anima e Dio. Certo, Vannini di per sé rimanda ai testi mistici e, quindi, la sua è più esegesi che teoresi personale. Così, nel chassidismo ebraico egli scopre un monismo per cui «l'idea della presenza di Dio in tutte le cose» nega al «male ogni sussistenza ontologica». Nell'Islam il sufismo si oppone a «un percorso a due poli nettamente distinti, uomo e Dio», tipico dell'ortodossia coranica, dando il via a un'unione amorosa vincolata alla condizione che «uno dei due venga soppresso». Ecco, allora, la proclamazione di al-Hallaj che esalta quell'«unione essenziale» tanto cara a Vannini: «Io sono Colui che amo e Colui che amo è me, siamo due spiriti che dimorano in un corpo». Il nesso di identità sarebbe, però, temperato da quella duplicità dialettica dei due "spiriti". Per il cristianesimo, poi, è paradigmatico che lo studioso fiorentino scelga solo Meister Eckhart, e non tanto perché è per suo merito che questa straordinaria figura medievale è stata riscoperta in Italia ma anche perché egli è l'emblema perfetto della lettura della mistica proposta da Vannini: «Il contenuto essenziale della mistica cristiana è, infatti, tanto semplice quanto paradossale: anima e Dio sono la stessa cosa».

Con altre figure come Giovanni della Croce o Teresa d'Avita il discorso, forse, si farebbe più complesso. Dicevamo, comunque, che lo studioso non vuole di per sé porsi come teologo, forse la sua è una posizione più filosofica, come ha fatto notare p. Giandomenico Mucci in un ritratto di Vannini pubblicato su «Civiltà Cattolica» (7 febbraio 2004, n. 3.687, pagg. 235-244). Se così non fosse, effettivamente il suo progetto potrebbe farsi alternativo rispetto alla teologia cristiana per la quale, essendo Dio persona, non è possibile un'identificazione tra Io divino e tu umano e viceversa. Il Dio biblico non è un Assoluto che ingloba in sé ed esaurisce tutto l'essere, assorbendo divino e umano. Certo è che Vannini nel suo giusto impeto contro il biblicismo, «utilizzazione di genere vagamente sapienziale e moraleggiante delle Scritture», corre il rischio di estenuare la rivelazione biblica proponendo quella che egli chiama appunto «una gnosi salvifica», privilegiando la cultura greca. Significativa è la conclusione (come lo è tutto l'epilogo) del saggio: «Appare necessario il rinascimento di quell'amore di verità che animò l'Ellade e che trovò compimento nel Vangelo - ultima espressione del genio greco - : la riscoperta dello spirito, la rinnovata generazione del Logos nell'anima nostra».

La moderna esegesi neotestamentaria su questa tesi avrebbe molto da eccepire, dopo le vaste ricerche sul retroterra ideale ebraico delle Scritture cristiane. Tutto ciò, però, fa ancor più comprendere come sia stimolante questo scritto e tutti gli altri di Marco Vannini. Nel caso in questione, poi, le sezioni dedicate alle varie religioni dispiegano una conoscenza che fa rimanere abbacinati per intensità e freschezza e che permettono di scoprire - lo ripetiamo senza rischi di concordismo -la consonanza suprema spirituale pur nel caleidoscopio delle prospettive, dei simboli e delle teologie.