Recensione a Prego Dio che mi liberi da Dio
di Roberto Celada Ballanti, in: <Humanitas> 65, 3/2010, pp. 521-524.
Ha scritto Simone Weil nei suoi Cahiers: “Non potresti desiderare di essere nata in un’epoca migliore di questa, in cui si è perduto tutto”. È da una simile radicalità di giudizio, peculiarmente weiliana, e dal paradosso in essa implicato, che si può muovere per comprendere il senso profondo del nuovo libro di Marco Vannini, terzo, si potrebbe dire, di una trilogia iniziata con le Tesi per una riforma religiosa (Le Lettere, Firenze 2006) e proseguita con La religione della ragione (Bruno Mondadori, Milano 2007). In realtà, alle spalle di questo approdo di Vannini c’è, com’è noto, ben altro che una riflessione “recens nata”: si tratta della pluridecennale traduzione e cura di eccellenti edizioni dei maggiori autori della mistica occidentale, da Eckhart a Taulero, da Cusano all’Anonimo Francofortese, da Margherita Porete ad Angelus Silesius, per ricordarne alcuni, fino alla recente importantissima traduzione, per Morcelliana, dei Paradossi di Sebastian Franck. Per quanto densamente teoretico possa apparire l’approccio di Vannini al tema religioso e mistico, occorre ricordare - ciò che ci pare essenziale - che esso si radica in tale diuturno e severo lavoro di scavo filologico-storiografico. L’autore aveva affidato anni fa a una complessiva storia della mistica (Il volto del Dio nascosto. L’esperienza mistica dall’Iliade a Simone Weil, Mondadori, Milano 1999; Storia della mistica occidentale. Dall’Iliade a Simone Weil, 2005) gli esiti di quel suo lungo misurarsi coi testi della tradizione mistica, ma ora, con la trilogia cui si è alluso, pare farsi carico più peculiarmente del problema religioso del nostro tempo.
Tempo, certo, della povertà estrema, quello descritto da Vannini: tempo, weilianamente, in cui “si è perduto tutto”. Da dove nascono, per l’autore, la povertà, la malattia morale, la corruzione di questo tempo? Da dove nasce quel “disagio dell’intelligenza” che affligge il cristianesimo sin dalle origini, lamentato ancora dalla Weil - alla quale l’autore dedica un fine profilo in un capitolo del libro, e la cui ispirazione attraversa l’intero volume - e che oggi pare divenuto insostenibile? Dal fatto che all’odierna efflorescenza religiosa - autentica Babele - che, come fenomeno di superficie, moltiplica le forme di religiosità, dando corpo all’impressione collettiva di un “ritorno di Dio” o di un “ritorno delle religioni”, come si suole dire, al proliferare di dibattiti intorno a simili temi, corrisponde una perdita radicale del linguaggio, delle categorie con cui “pensare” autenticamente l’esperienza religiosa. Siamo, per l’autore, nel tempo della “fine del cristianesimo” - cui fa da riflesso la decadenza dei costumi morali e civili -, e questa fine ha una causa precisa: l’eclissarsi di quel linguaggio che affondando nella filosofia greca, in primis platonica, poi in Agostino, radicandosi nel modo classico di pensare la filosofia quale “esercizio spirituale” - come Vannini ama ripetere con Pierre Hadot -, ha fecondato il pensiero cristiano, custodito da quel flusso fecondo della mistica che arriva fino all’età moderna e che dal Seicento - secolo che si apre con il rogo di Bruno e si chiude con la condanna di Molinos e Fénelon - trova nelle grandi Chiese europee, irrigiditesi in ortodossie in lotta, il più forte ostacolo e la più occhiuta censura. Oblìo di quel linguaggio mistico che ha assecondato la componente mendace della religione, quella mitologico-rappresentativa . Scristianizzazione, miscredenza, ateismo, sono l’amaro frutto di quel diffondersi della religione come “mitologia”. Mali che nascono, dice Vannini, ed è giudizio quanto mai degno di essere meditato, all’interno della stessa religione, non da forze esterne oppositive.
Nondimeno, la modernità non è stata solo questo, per Vannini: mentre la “sommersa nave de la religion”, come scrive Giordano Bruno nello Spaccio de la bestia trionfante, sprofondando, faceva affiorare i frammenti, i relitti, le tavole, i resti incomponibili di quella “nave”, si manifestava, o resisteva, una coscienza tesa a riattingere, del religioso, le archai, le sorgenti, le radici autentiche, custodite nella mistica. È come se l’oscurarsi sempre più delle ragioni, del senso e del luogo, dell’esperienza religiosa avesse dato linfa e impulso nel pensiero europeo alla ricerca, dall’Umanesimo all’Illuminismo, di nuove (o antiche) vie verso la Trascendenza. Mistica, ma anche filologia, analisi trascendentale, sono i frutti di tale sforzo di emendare il religioso da quanto ne soffocava le più autentiche intenzionalità. Così, metterebbe conto riflettere, “spiritualizzazione” e “storicizzazione” della religione, mediante le metodologie storico-critiche, da Erasmo all’Illuminismo, condividono nell’età moderna la stessa origine. Sottolineiamo ciò, meditando su questo libro, non a caso, perché si tratta in realtà delle componenti, già additate, del lavoro intellettuale e dell’itinerario di pensiero di Vannini, la cui “classicità” sta, innanzitutto, ci sembra, nel rispecchiare queste due sorgenti moderne della ricerca de vera religione e della libertà religiosa: mistica e filologia .
Accomunate e rese solidali dall’emarginazione e dalla persecuzione delle Chiese, queste forze spirituali indipendenti hanno cospirato, nel dominio del religioso, a un fermento consumativo, a una vera emendatio del religioso: a quel logoramento del letteralismo, delle superstizioni, delle rappresentazioni - ovvero a quanto Vannini definisce “mitologia” - che dello “spirito” sono il soffocamento e l’atrofia. L’Illuminismo, in primis tedesco, in questo senso ha rappresentato, in taluni aspetti, un processo decostruttivo, “demitizzante” (con questo significato, come Vannini ricorda, è nata in Platone la parola “theologia”: si tratta dei “typoi peri theologias” di Resp . 379a), un metodo e una propedeutica all’inverarsi in senso spirituale della religione. È quanto Lessing esprimeva nei termini della liberazione della “verità interna” della religione dalla sua “verità ermeneutica”, legata alla prigionìa della storia e catturata nella “ragnatela” fragile delle prove storiche. Ma, aggiungiamo con Vannini, la liberazione è altresì dalle teologie, fonte di menzogna in quanto rappresentazione di Dio, colto come “altro”, ossia ob-iectum, Gegen-stand, cosa gettata là, da padroneggiare col gesto “prensile” dell’afferrare concettuale. In tale gesto “prensile” delle rappresentazioni sta, in fondo, l’espressione di quell’ amor sui, di quella “appropriazione” (ben omogenea all’atto del cum-capere, del be-greifen ) riconosciuta come fonte ingannevole delle teologie e delle stesse Scritture, in quanto antipode del “distacco”.
Proprio perché la modernità è stata anche questo, ossia l’istanza suddetta di emendatio religiosa, insieme a quella di dissolvere le teologie dogmatiche in filosofia, e proprio perché il flusso mistico non si è mai estinto, ad onta di emarginazioni e persecuzioni, per Vannini il tempo della fine corrisponde, può corrispondere, a un nuovo inizio . La natura del vero - ripete l’autore con Hegel - è di farsi largo quando i tempi sono maturi. Il “cristianesimo altro” auspicato nel capitolo finale del libro, è in realtà un cristianesimo in cui ogni alterità sia “tolta” o “superata”, sia dunque “aufgehoben”, detto con logica e linguaggio hegeliani, di cui la filosofia di Vannini è densamente tributaria. L’alterità da “togliere” corrisponde al piano “mitologico” della religione, ovvero - ad assecondare una categorizzazione, questa volta, neoplatonica - a ciò che, come molteplice e duale, “resiste” (ed ecco il male) alla risoluzione nell’Uno, nell’Identico. Così, Sacre Scritture, Chiese, cerimonie, teologie, stanno come l’ombra alla luce, definiscono l’esteriorità rappresentativo-oggettivante cui va riconosciuto, certo, un valore propedeutico-pedagogico ma che, alla fine, va ricondotta all’interiorità dello spirito, al luogo mistico, all’ unitas spiritus, a quell’unità nello spirito e dello spirito nella cui luce la verità religiosa sgorga e fluisce. Qui sta l’intima struttura dialettica della mistica speculativa, entro cui le determinazioni finite - contenuti, simboli, rappresentazioni - si dissolvono, svaporano, e in cui la purezza del vuoto coincide con la massima pienezza. L’esperienza dello spirito è, appunto, realtà pleromatica, satura d’essere, luce compiuta, senza oggettivazioni e alienazioni, presente qui e ora, nell’attimo di grazia.
Tale è anche il nucleo di quella “riforma religiosa” che, in un libro già ricordato, Vannini articolava in 60 tesi, che, delle 95 di Lutero, non solo non riflettono il numero, ma ne ribaltano senso e sostanza. Semmai, a Lutero, Vannini si potrebbe appellare nello spirito di Lessing, che chiamava Lutero “grand’uomo misconosciuto” - colui che aveva affrancato le coscienze dal giogo della tradizione, ma non da quello della lettera - e che voleva inverare il Riformatore in una direzione non lontana da quei mistici umanisti come Sebastian Franck (presente nel libro in un profilo) avversati ed emarginati dalla nascente Chiesa protestante. Così, Vannini, analogamente al pensatore del Cinquecento, al biblicismo e all’idolatria della Scrittura può opporre l’eredità del platonismo e, in generale, della mistica. Questa è la “verità delle religioni” il cui nocciolo va, oggi, liberato in vista di quella riforma: “[...] l’opera platonica esprime la religiosità più completa e più pura mai apparsa in Occidente, dalla quale ha tratto ispirazione e alla quale ha fatto riferimento per secoli la mistica, cristiana e non solo cristiana” (p. 51). Fuori da qui, non resta che il “grosso animale” di cui parla Platone, ossia una religione prona al sociale, come religio civilis, umanitarismo o morale pubblica: “Privato dell’eredità platonica, il cristianesimo è tutto accomodato al sociale, ovvero al ‘grosso animale’, all’io e soprattutto al noi, con la correlata immagine idolatrica di Dio” (p. 183).
Distacco anziché appropriazione, identità nello spirito, nell’Uno, invece che dissipazione nella regio dissimilitudinis in cui l’uomo contemporaneo si è esiliato, nel molteplice e nel Duale. Tale è la “religione della ragione, in cui non si adora Dio né sui monti né nei templi, giacché Dio è spirito e si adora solo in spirito, in quel tempio che è l’anima” (p. 185).
Un libro radicale, sin dalla paradossale espressione eckhartiana che ne fissa il titolo, come radicale ed eversiva sa essere la mistica, all’altezza del tempo presente e della sua crisi, all’altezza di quella “dürftige Zeit” dall’evocazione della quale si era partiti.