Sulla falsa unità delle tre religioni monoteiste

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La Verità, 3 gennaio 2018

di Marco Vannini

Una delle cause più rilevanti dell’attuale banalizzazione del cattolicesimo è l’affermazione della unità delle tre religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo, islam, in quanto professanti la fede nel medesimo Dio.

Questa affermazione è un completo stravolgimento della realtà, possibile solo a un cristianesimo che ha perduto il suo specifico, che è quello della umanità di Dio. Come scriveva Simone Weil, se si pensa a un Dio dotato degli attributi della potenza, si tratta di Jahvè o di Allah, divinità naturali, non soprannaturali. Ricordando poi come nella grecità fosse possibile chiamare Zeus non solo “padre dei supplici”, ma addirittura supplice egli stesso, rilevava come sia assolutamente impossibile pensare a Jahvè supplice, o ad Allah supplice. Divinità della forza, Signori degli eserciti, “che mandano i beni ed i mali”, che non hanno niente a che fare col Dio del Vangelo, dal quale vengono solo beni e che, come il sole, splende ugualmente sui giusti e sugli ingiusti.

La asserita unità delle tre religioni suddette sostiene anche che esse sarebbero allo stesso modo “religioni di pace”, in quanto tutte basate sul cosiddetto profetismo biblico. Si tratta di una falsità bella e buona, come è facilmente dimostrabile se, ricordando l’assioma vichiano che la natura delle cose è il modo della loro nascita, si va a vedere gli inizi di questa storia.

Gli studi contemporanei di Jan Assmann, da La distinzione mosaica al recentissimo Religione totale, hanno mostrato quanta violenza sia implicita nell’essenza stessa del profetismo e del monoteismo biblico, dal quale direttamente deriva quello islamico.

Le attività dei profeti cominciano da Mosè, che in Esodo 32, 27 ordina di uccidere anche fratelli e amici se “infedeli”, e, per quanto riguarda la conquista della terra “che Dio ti ha assegnato”, prescrive di “non lasciare in vita alcun vivente, ma tutti votarli allo sterminio” (Deuteronomio 20, 15-18).

Anche l’islamismo è nato da una conquista: Maometto fu prima di tutto un capo politico e militare. Secondo il racconto del suo primo biografo, Ibn Ishaq, dopo la cosiddetta “battaglia del fossato” contro i meccani, il profeta combatté contro la tribù ebraica medinese dei Qurayzah e, dopo che gli ebrei si furono arresi, fu chiesto loro di scegliere se riconoscere che Maometto era il profeta annunciato da Dio nelle Scritture o morire. I Qurayzah risposero: “Non abbandoneremo mai la Torah di Mosè e non la scambieremo mai con un’altra”. Allora Maometto si recò al mercato di Medina e vi fece scavare delle fosse. Poi fece chiamare i maschi e man mano che gli venivano portati a gruppi tagliava loro la testa, facendola cadere nella fossa . Erano seicento o settecento in tutto. Le donne e i bambini furono ridotti in schiavitù e venduti per acquistare cavalli e armi. Maometto prese come schiava Rayhana, moglie di un decapitato.

Gli apologeti musulmani adducono il precedente di Mosè per giustificare la spietatezza di Maometto nei confronti dei seguaci dell’antico legislatore, che faceva da modello al profeta. Il massacro dei Qurayzah venne giustificato dicendo che gli ebrei furono trattati precisamente come i loro antenati avevano trattato gli altri. L’annientamento degli ebrei nella città destinata a Maometto collima infatti esattamente con la legge ebraica sul trattamento di una città assediata, secondo il passo del Deuteronomio, 20, 10-14:

“Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla […] se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora l’assedierai. Quando il Signore tuo Dio l’avrà data nelle tue mani, ne ucciderai a fil di spada tutti i maschi, ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come preda”.

Che i conquistatori di una città ne uccidessero i maschi e prendessero le donne e i bambini come schiavi, era cosa comune nell’antichità, ma presentare questa prassi come divinamente ispirata, voluta da Dio, è abominevole.

Noi ci lamentiamo del fondamentalismo islamico, che ritiene giusto e doveroso sottomettere i non musulmani, facendoli soggiacere alla legge coranica, ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà: Bibbia e Corano sono sempre serviti, e servono tuttora, a legittimare la sopraffazione, “in nome di Dio”. Non ha forse il primo ministro israeliano Netanyahu di recente dichiarato che è Dio ad aver assegnato la Palestina agli ebrei?

Quando il profeta decapitò tutti gli ebrei di Medina perché non accettavano il suo dominio, poteva perciò a buon diritto rifarsi all’esempio dei profeti biblici, testimoniando quale sia l’essenza del profetismo: espressione di potenza, nella quale la giustizia è solo una situazione favorevole a se stessi, accompagnata da odio per gli altri, gli “ingiusti”, verso i quali si scatena lo spirito di vendetta. Nonostante il tanto conclamato universalismo, anche Isaia pensa la “nuova Gerusalemme” in termini di dominio e di sfruttamento: “I figli degli stranieri edificheranno le tue mura e i loro re ti serviranno […] La nazione o il re che non ti vorranno servire, periranno, le nazioni saranno interamente distrutte […] Succhierai il meglio delle nazioni, attirerai le ricchezze dei re […] Gli stranieri pascoleranno le vostre greggi, i loro figli saranno i vostri agricoltori e vignaioli; vi godrete i beni delle nazioni, profittando delle loro ricchezze” (Isaia 60-61).

Questa fandonia dell’unità delle tre religioni monoteiste e del messaggio universale di fratellanza e pace portato dai profeti sarebbe perciò comica, se non fosse tragica per il cristianesimo, in quanto lo snatura completamente. Infatti le Chiese hanno sposato il profetismo e le sue speranze terrene nella esatta misura in cui hanno perduto la fede nel regno di Dio, che è dentro di noi (Luca 17, 21) e non di questo mondo (Giovanni 18, 36).