L'eclisse dello spirito
La Verità, 28 dicembre 2017
di Marco Vannini
Una assenza terribile grava, da tempo, sulla nostra società, che, ahimè, di tale assenza non ha neppure sentore: l’assenza dello spirito. La stessa parola “spirito” è rimasta infatti solo per significati senza importanza, come “battuta di spirito” e simili, oppure come sinonimo di anima. La profonda differenza tra anima (oggi si dice psiche) e spirito è assolutamente perduta, e questo significa, semplicemente e drammaticamente, che non si ha più esperienza della vera essenza dell’uomo. La cultura attuale pensa infatti l’essere umano solo nei termini di corpo e di psiche, ignorando il suo terzo e fondamentale elemento, che l’antropologia antica, classica e cristiana, conosceva invece bene: lo spirito, appunto.
Spirito è l’amore non finalizzato a un oggetto particolare, ma rivolto all’universale, e dunque non desiderio di possesso, ma volontà di assoluto bene, come luminosamente si legge nel Simposio di Platone. Ed, insieme, è l’intelligenza, anch’essa non rivolta a un fine particolare, ma all’universale, alla verità. Tutto ciò si può spiegare in modo filosoficamente articolato, ma la tradizione mistica lo dice con una bella e semplice immagine: come il volto ha due occhi, che, insieme, fanno un unico sguardo, così l’uomo ha i due occhi, dell’amore e dell’intelligenza, che, insieme, fanno spirito.
Il dramma è che di spirito non parla più neppure la Chiesa, che, tornata all’Antico Testamento e perciò ormai tutta appiattita sul sociale, sembra aver dimenticato il Vangelo. Che Dio è spirito, e solo in spirito si adori (Gv 4, 24) e che l’uomo sia ugualmente spirito, un solo spirito con quello di Dio (1 Cor 6, 17) non si sente più annunciare, né dalle supreme gerarchie né dai semplici parroci. Non si sente spiegare più la terribile, radicale opposizione che l’apostolo Paolo pone tra uomo della psiche e uomo dello spirito: il primo soggetto alle passioni dell’anima e della carne che la governa, il secondo veramente libero, capace di tutto comprendere, tutto giudicare, fino a scrutare “le profondità di Dio” (1 Cor 2).
Il linguaggio di Paolo non deve sorprendere. L’ apostolo sta infatti esprimendo l’esperienza della nostra intelligenza più elevata, che non dipende dalle circostanze, dal particolare, ma si muove libera, sovrana, in una beatitudine tanto grande da sembrare divina. Niente di nuovo, anzi, qualcosa di familiare alla filosofia greca, dal suo sorgere fino al suo tramonto. Basti qui ricordare Aristotele, che parla di quella intelligenza che, essendo “distaccata”, è perciò libera, non condizionata. Essa è “un altro genere di anima, immortale, eterna”, e la sua beatitudine è “divina”.
Il punto è proprio in quel distacco che l’intelligenza e l’amore devono avere nei confronti di tutto ciò che è appropriativo, egoistico. E tale è lo psichismo che ci avvolge, – desideri, sentimenti, pensieri ad essi legati - che scambiamo di solito per il nostro vero essere. Uno dei Padri del deserto, Evagrio Pontico, insegnava perciò che la radice di tutta la sofferenza dell’anima – oggi diremmo “depressione” – sta proprio nel fatto che non si conosce il vero io, lo spirito, e si prende invece per vero io la psiche. Infatti il Vangelo invita a “rinnegare se stessi” (Lc 9,23) “odiare la propria anima” (Gv 12, 25) perché si possa rinascere come spirito (Gv 3, 5 s.). Non a torto i primi Padri della Chiesa riconobbero nell’appello evangelico l’insegnamento che da sempre costituiva il filosofare: distaccarsi da tutto, “esercitarsi a morire”, come lo definisce Platone.
Sempre rifacendosi ai grandi maestri antichi, la tradizione mistico-filosofica parla perciò di “morte dell’anima”, ovvero della estinzione della volontà egoica, legata al particolare, a ciò che è superficiale, e dopo la quale soltanto è possibile scendere nel profondo di noi stessi, trovando l’essenziale, il nostro vero io. È “quella parte dell’anima che non è toccata dal tempo, separata dal particolare, il fondo dell’anima, che si chiama spirito. Solo chi lo conosce, conosce se stesso e sa cosa sia la beatitudine: per chi ha gettato lo sguardo anche solo un attimo in questo fondo, per lui tutte le altre cose non valgono assolutamente nulla”, dice Meister Eckhart.
Non avendo più conoscenza dello spirito, la Chiesa non può più esercitare neppure quella che era stata per secoli la sua sancta ars, come la chiamava Gregorio Magno: la cura animarum, la cura delle anime. Essa difatti ha ceduto il posto alla psichiatria, che pretende di curare l’anima alla stregua del corpo (come la odontoiatria, la otorinolaringoiatria, ecc.).
Questo passaggio da anima a psiche deriva infatti dalla perdita del concetto di spirito, o – quel che è peggio – dalla sua identificazione col sentimento, che è proprio il suo contrario: il legame al particolare che tiene prigioniero lo spirito . Ma questo la cultura attuale, la psicologia, la sociologia, lo ignorano e tale ignoranza tiene nella alienazione (il weiliano “sradicamento”) tanto il singolo quanto l’intera società: povero gregge, che ha come guida ciechi che fanno da guida a ciechi (Mt 15, 14).