Sulla follia divina

Copertina Credere è reato?

Sulla follia divina, in: Credere è reato?, a cura di Luigi Berzano, Edizioni Messaggero, Padova 2012, pp. 35-41.

“Ci sono due forme di follia: una che nasce da malattia umana, un'altra che deriva da un divino mutamento delle abitudini consuete”. Così scriveva Platone nel Fedro[1], distinguendo anche le varie forme di questa follia, “dono divino”, “da cui giungono all'uomo i più grandi doni”.[2] Pur diverse tra loro, queste forme di follia divina appartengono comunque all'ambito religioso, e difatti provengono ciascuna da un dio – da Apollo la divinazione, da Dioniso l'iniziazione mistica, dalle Muse la poesia, da Afrodite l'amore. Solo chi per divina grazia (theia moira) le ha esperimentate, può giudicarne.

Il celebre passo platonico viene alla mente quando si pone il problema di valutare un'esperienza religiosa non sotto l'aspetto teologico, ma proprio sotto quello della “normalità”, o della “salute” mentale.

Nel mondo antico da un lato la follia è stata sempre esorcizzata, emarginata, ma dall'altro si è sempre intuito che in essa ci poteva essere una carica infinita di verità, di onestà, di “sapere”.[3] Anche nel mondo cristiano il “folle” ha goduto sempre un profondo rispetto - non oppone forse anche Paolo la follia divina alla sapienza umana? - [4] pur venendo rimosso come pericoloso per la normalità, per le “abitudini consuete”, ovvero per l'ordine sociale presente. Folle era Francesco d'Assisi; folle Marc Chaduc, il monaco francese, discepolo di Henri Le Saux in India, che abbandonò tutto per vivere come asceta itinerante e scomparve sull'Himalaya; folli le tante mistiche medievali con il loro terribile ascetismo (basti ricordare Veronica Giuliani). E, in altre religioni, non sono forse folli i sadhu indiani nel loro ascetismo altrettanto terribile, o i monaci buddisti che si bruciano vivi per protesta contro la sopraffazione politica e religiosa?

Ai nostri giorni però la valutazione di un'esperienza religiosa avviene sul terreno della antropologia, ovvero ciò che riguarda l'uomo nei suoi vari aspetti, dal biologico al sociologico, allo psicologico - ed è precisamente in quest'ultimo àmbito che si vuole far rientrare anche il religioso.

L'operazione riesce perfettamente nella maggioranza dei casi, ma non riesce affatto là dove il religioso tocca lo spirituale. Non può riuscire perché lo spirito è stato espulso dalla nostra cultura, come un corpo estraneo, e perciò essa non ne può parlare: non sa più neanche cosa la parola significhi.

Nelle nostre società la gerarchia dei saperi antropologici ha infatti il suo vertice nella psicologia, a tal punto da avere il primato anche in àmbito religioso: la religione stessa, infatti, oggi si difende e si sostiene principalmente con argomentazioni di carattere utilitaristico - psicologico, e quindi poi anche sociologico e finanche politico. Però la psicologia e la psichiatria non sanno niente dello spirito: non sono scienze, ma ideologie – una costellazione infinita : sono state censite a tutt'oggi in Italia oltre quattrocento “scuole” riconosciute di “psicoterapia” – e la loro storia è una galleria di banalità e di orrori. Con inesauribile potenza onomatopoietica, inventano pseudomalattie e pseudoterapie per far soldi, sempre in collusione col potere politico-economico;[5] solo la povera gente, che deve subirle, pensa che si tratti di scienze e che abbiano qualcosa a che fare con la medicina.

Basti ricordare il caso di Ezra Pound, uno dei poeti più grandi del ventesimo secolo, che, ritenendo il capitalismo finanziario una rapina e un'usura, capace di affamare non solo individui e famiglie, ma interi popoli e nazioni, la presunta democrazia in realtà un'oligarchia al suo servizio, e avendo perciò sostenuto il fascismo italiano, fu dichiarato malato di mente e rinchiuso per quattordici anni in un manicomio criminale negli Stati Uniti.

Questo avveniva più di mezzo secolo fa, ma la situazione non è migliorata – anzi, è peggiorata, dal momento che oggi c'è il fenomeno spaventoso della complicità tra psichiatria e industria chimico-farmaceutica. Il potere è a servizio degli interessi: esemplare il caso di Wilhelm Reich – freudiano eterodosso, autore di lucidissime analisi sull'eziologia sociale del disagio psicologico - che, per aver sostenuto teorie non gradite alla potentissima FDA (Food and Drug Administration), fu messo sotto processo. Egli rifiutò, giustamente, l'autorità dei giudici in materia: li invitò polemicamente a leggere i suoi libri e fu perciò incarcerato. In carcere morì, nel 1957, ma già nell'agosto 1956 tonnellate di suoi libri erano stati bruciati (sic!) a New York, sotto la supervisione della FDA.[6]

È dovere dell'uomo di cultura chiedersi come siamo arrivati a questo. La risposta più significativa, anche se non l'unica, è che siamo a questo punto perché la cultura occidentale ha rimosso l'esperienza spirituale, ovvero la mistica[7], confinandola in un campo di eccezionalità: da allora è rimasto solo un presunto sapere dell'anima, affidato alla psicologia. Essa però ha solo una qualche conoscenza delle facoltà dell'anima (meglio dire della psiche, visto il significato religioso-spirituale di anima), ma non del suo “fondo” spirituale[8], che si esperimenta solo in un distacco assoluto – nella “notte” del nulla, nella “morte dell'anima”. Senza esperienza dello spirito, la psicologia e la psichiatria sono mutile e perciò anche incapaci di valutare correttamente. Né ci si può trincerare dietro una dichiarazione di neutralità: in ciò che concerne l'anima c'è una valutatività[9] ineliminabile, perché si ha a che fare con scelte, e dunque col valore e con una gerarchia di valori. Ma come si può correttamente, onestamente, imparzialmente giudicare, senza distacco?

Scrive con straordinaria lucidità Simone Weil:

“Dal momento che l'intelligenza è una tensione verso qualche valore, come farà a distaccarsi dal valore verso cui tende per considerarlo, giudicarlo e classificarlo in rapporto agli altri? Questo distacco esige uno sforzo e ogni sforzo dell'intelligenza è una tensione verso il valore. Così, per operare questo distacco, l'intelligenza deve considerare questo distacco come valore supremo. Ma per riuscire a vedere nel distacco un valore superiore a tutti gli altri, bisogna già esser distaccati da tutti gli altri. C'è in questo un circolo vizioso che fa apparire l'esercizio dell'intelligenza come un miracolo. La parola “grazia” esprime questo carattere miracoloso”.[10]

Grazia, ovvero qualcosa che in certo modo non è natura, non proviene da noi stessi – come l'intelletto aristotelico: un “altro genere di anima”, che “proviene dall'esterno” ed è “separato”, “divino”.[11]

Bisogna che l'anima “muoia”, ossia che nel distacco si perda la Eigenschaft, la appropriatività, che costituisce l'essenza stessa dello psichismo, e in questa “morte” dell'egoità psichica compaia lo spirituale. Nella storia delle religioni si manifesta infatti il fenomeno del soggetto che ha perduto se stesso proprio in quanto soggetto, egoità psichica, e perciò si identifica con l'assoluto, col divino.

Ich bin Gott geworden, “io sono diventata Dio”, dice l'umile sorella Katrei al suo confessore, al termine del suo itinerario di distacco, di auto-spoliazione.[12] Allo stesso modo parla la nobile genovese Caterina Fieschi Adorno,[13] capace di eroica dedizione al servizio di poveri e malati, e l'elenco potrebbe continuare a lungo.

Tutti costoro sono, seppure in diverso modo, dei folli, folli per amore, e infatti della follia divina l'amore – come insegna ancora Platone[14] - è la manifestazione più bella e significativa. Ma quale amore? Non certo l'amore desiderio di possesso, ma l'amore del prossimo, della giustizia, l'amore dell'amore stesso, di ciò che appare comunque come valore supremo, e che spesso viene chiamato “Dio”.

È per questo valore supremo che si rinuncia a se stessi e si esperimenta così l'unitas spiritus,[15] l'unione spirituale con quell'Uno nel quale è la vita, ben superiore all'esistenza fisica, cui si diviene perciò indifferenti.

Questo fenomeno non riguarda certo solo il mondo cristiano e/o il passato. Molto significativo, nel nostro tempo, è il caso del grande asceta e mistico indiano Ramana Maharshi, che tanto colpì Henri Le Saux. È oltremodo significativo che Carl Gustav Jung, pure grande ammiratore dell'Oriente, si sia rifiutato di andare a visitarlo, durante il suo viaggio in India.[16]

In realtà l'esperienza dello spirito è ignota tanto alla psicologia quanto alla religione nel suo aspetto sociologico prevalente. Ma non si tratta solo di ignoranza: come sempre, all'ignoranza si accompagna una implicita, fors'anche inconsapevole, ma non per questo meno reale ostilità. L'ostilità di chi avverte, a naso più che con l'intelligenza, che quella cosa è profondamente, intimamente lontana – anzi contraria – a quanto si sostiene, a tutto quello di cui ci si fa forti, alle “abitudini consuete”. Avverte, cioè, che in essa c'è una carica distruttiva, capace di smascherare tutta la menzogna di cui ci si nutre e di lasciare per così dire nudi, privi di ogni potere e di ogni autoaffermatività.

Perciò anche nelle religioni stesse abita l'incomprensione, e l'intolleranza sua compagna inseparabile.

Uno itinere non potest perveniri ad tam grande mysterium: non si può giungere a un mistero così grande con un solo percorso: così, nel 384, il pagano Simmaco chiedeva all'imperatore di rispettare le tradizioni antiche e di ricollocare nella curia l'Ara della Vittoria. Ma l'impero era ormai cristiano e il vescovo Ambrogio la ebbe vinta: non c'era più posto per le antiche divinità. La splendida frase di Simmaco resta la nobile testimonianza di un atteggiamento davvero religioso, nel quale la ricerca di Dio, ricerca della verità, non è chiusa nei dogmatismi, nelle ideologie, ma rispetta invece sempre qualcosa che è, appunto, tam grande, ovvero infinitamente trascendente la finitezza di noi, miseri mortali.

È doveroso ammettere che la tolleranza è richiesta quasi sempre dalle minoranze, dagli sconfitti, dai perseguitati, che erano talvolta, in precedenza, i persecutori, come nel caso che abbiamo sopra citato, e, a loro volta, i perseguitati di un tempo divengono spesso persecutori, appena al potere (l'esecuzione di Priscilliano, per “eresia”, è del 385).

Di fronte all'odio anticristiano del nostro tempo - e non solo quello rozzo, superstizioso, tribale della lontana Nigeria, ma quello “colto”, “laico”, “civile”, delle nostre città - come non ricordare ciò che scriveva Nietzsche ormai un secolo e mezzo fa: dobbiamo pagare due millenni di cristianesimo precipitando nell'opposto, in uno spaventoso anticristianesimo, appunto.

Questa logica è descritta con precisione da Simone Weil, e si può riassumere in poche righe: la società è il “grosso animale” platonico, che adora la forza e rispetta solo quella. Dalla forza deriva la legge, il diritto, che, in quanto tale, è precisamente l'opposto della giustizia. Perciò la giustizia, che è Dike, figlia di Zeus, cioè di Dio, “fugge sempre dal campo dei vincitori”, ovvero da coloro che possiedono la forza e stabiliscono il diritto. Le leggi non scritte e non scrivibili della giustizia (vedi Antigone) sono quelle della grazia, ovvero quella che la Weil chiamava “fisica soprannaturale”,[17] non meno rigorose, ma certamente diverse da quelle della pesanteur, della forza.

Chi detiene il potere, la forza, la esercita stabilendo non solo il diritto, ma anche e soprattutto i valori, la morale, e dunque la religio licita , (o le religiones licitae ), decidendo quali sono le “verità” nei diversi àmbiti – in primo luogo quelli etico-politici, ma poi anche, quasi di necessità, tutti gli altri.

È così che lo stato – il peggiore di tutti i mostri, ancora secondo Nietzsche - sente il bisogno di definire per legge anche le verità scientifiche, particolarmente in quei campi che toccano più da vicino il potere, ovvero quelli che più riguardano l'uomo. Siccome chi controlla il passato controlla il presente e chi controlla il presente controlla il futuro, lo stato con la sua scienza di stato, in primo luogo l'università, controlla la storia, esercita la damnatio memoriae sugli sconfitti, e non solo e non tanto nell'àmbito politico-militare, quanto e soprattutto in quello della cultura, che è ciò che fa opinione prevalente. Dal momento che, come diceva Platone[18], non c'è e non ci sarà mai altra morale che quella della moltitudine, e nello stato democratico è il numero che conta, in esso la tirannia è quella peggiore, quella del numero, che stabilisce i valori e determina anche cosa è vero e cosa è falso, dunque cosa “salute” e cosa “malattia mentale”.

Ma quale esperienza religiosa ha la massa? Che esperienza ha di distacco, di morte dell'anima, di spirito? E cosa ne sa la psicologia di stato? La psichiatria, che deve ammettere di non comprendere neppure la “follia che proviene da malattia umana”[19], non può certo giudicare quella “divina”.

Quando si pone il problema di valutare esperienze comunque “religiose”, dobbiamo perciò innanzitutto chiederci: chi può giudicarne con piena conoscenza? Quis custodiet custodes?


[1] 265 a.

[2] Ibid., 244 a.

[3] Sul tema, sempre valido lo studio di E. R. Dodds, I greci e l'irrazionale, ed. it. La Nuova Italia, Firenze 1959.

[4] Cfr. 1 Cor 1, 17 ss.

[5] Questo è il tema della parte finale del mio La morte dell'anima. Dalla mistica alla psicologia, Le Lettere, Firenze 2004. Ma si può utilmente consultare Edward Shorter, Storia della psichiatria, ed. it. Masson, Milano 2000.

[6] Sull'orrore delle “cure” con i cosiddetti psico-farmaci, sostanze che lasciano danni cerebrali irreparabili, è stato giustamente detto che “si guarderà a quest'epoca segnata dal consumo di tali medicine come a un terribile esperimento sociale”. Così Joseph Glenmullen, professore a Harvard : cfr. La morte dell'anima, cit., p. 342, nota 68.

[7] In proposito mi permetto rimandare alla mia Storia della mistica occidentale. Dall'Iliade a Simone Weil, Mondadori, Milano 2010.

[8]& Il termine “fondo” (Grund) è tipico della mistica speculativa germanica medievale, ma ha diversi equivalenti in altri tempi e altre culture: cfr. in proposito il mio Meister Eckhart e il fondo dell'anima, Città Nuova, Roma 1999.

[9] Usiamo consapevolmente questo termine, in opposizione ad a-valutatività, con cui è stato tradotta la weberiana Wertfreiheit delle scienze storico-sociali.

[10] Simone Weil, Quelques réflexions sur la notion de valeur, citato in: S.Moser, La fisica soprannaturale. Simone Weil e la scienza, cit., p. 116.

[11] Cfr. Aristotele, De anima, 430 a.

[12] Cfr. Pseudo Meister Eckhart, Diventare Dio. L'insegnamento di sorella Katrei, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 2006.

[13] Cfr. Caterina da Genova, Vita mirabile – Dialogo – Trattato sul purgatorio, a cura di F. Lovison, Città Nuova, Roma 2004.

[14] Ibid., 265 b.

[15] L'espressione, di diretta origine paolina (qui adhaeret domino, unus spiritus est: 1 Cor 6, 17) è di Guglielmo di Saint-Thierry, cui si deve la splendida Epistula ad fratres de Monte-dei: cfr. id. , La lettera d'oro, § 263, Mondadori, Milano 1997, p. 114.

[16] Cfr. in proposito l'illuminante saggio di Augusto Vitale, Psicologia analitica e spiritualità, in: <Rivista di Ascetica e Mistica>, 4 /2011, pp. 1007-1021.

[17] Cfr. Sabina Moser, La fisica soprannaturale. Simone Weil e la scienza, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2011.

[18] Cfr. Platone, Repubblica, 493 a.

[19] Cfr. ad es. Alberto Gaston, Genealogia dell'alienazione, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 105-106 e passim, ove lo psichiatra parla di sostanzialmente fallimento della psichiatria, sia come attività nosografica, puramente nominalistica, sia come terapia (cit. in: La morte dell'anima, cit., p. 338).