Preghiere laiche

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la Repubblica, 15 aprile 2013

di Marco Vannini

Chi passa in questi giorni in libreria resta colpito dalla quantità di libri di e sul nuovo papa: tra editori piccoli e grandi, di area cattolica ( San Paolo, Jaca Book, ecc.) e non (Rizzoli, Giunti, Mondadori, ecc.), sono presenti più di una decina di titoli, alcuni dei quali ai vertici delle vendite, nell'ambito della saggistica.

L'elezione di Francesco e i suoi primi gesti hanno infatti riacceso nell’opinione pubblica l'interesse per la Chiesa romana . Un interesse fatto di stupore, di fronte alla inaspettata vitalità dell'antica istituzione, ma anche con una notevole dose di più o meno esplicita ammirazione, che fa venire alla mente l'osservazione di un uomo non certo sospetto di apologetica cattolica: “la finezza dell’alto clero, le figure più nobili della società umana, ove domina il superiore disprezzo per la fragilità del corpo e della sorte, come è degno del soldato-nato, ha sempre dimostrato per il popolo le verità della fede”.

Quello che Nietzsche, perché di lui si tratta, chiama disprezzo per le vicende della propria vita fisica e della sorte, non è altro che il distacco dall'Io, ovvero quella rinuncia a se stessi che è il nucleo dell'insegnamento evangelico, e con la quale si apre la dimensione dello spirito. E' il frutto di una conversione, nel senso etimologico, ovvero di un rivolgersi non più verso il mondo e i suoi valori, e di una fede nell'assoluto. Chiunque, laico o religioso che sia, avverte, tanto& istintivamente quanto profondamente, la nobiltà, la bellezza di questo distacco e di questa fede, ovunque si manifestino.

Peraltro, non si tratta qui affatto di adesione a una dottrina, ad un credo. Infatti questo sentimento di rispetto ed ammirazione viene meno, anzi si converte in un moto di ripulsa quando sente proclamare una dogmatica, una teologia, con i suoi risvolti morali e finanche politici.

Quali sono allora le verità della fede “dimostrate per il popolo” da quelle aristocratiche figure? La risposta non è semplice. Per alcuni le verità sono la dogmatica tradizionale, come più o meno si recita ancora nel Credo, ma certo non è così per molti altri, sia pure cristiani, nei quali il passaggio per la scienza contemporanea, che chiameremo riassuntivamente illuminismo, non è avvenuto invano. Prendendo ancora a prestito le parole di Nietzsche, “quando la mattina di domenica udiamo le campane….ci chiediamo: ma è mai possibile? Ciò si fa per un ebreo crocifisso, che diceva di essere il figlio di Dio…un Dio che genera figli con una donna mortale, un saggio che incita a non lavorare più, a non pronunciare più sentenze, a badare invece ai segni della prossima fine del mondo, una giustizia che accetta l’innocente come vittima vicaria; qualcuno che comanda ai suoi discepoli di bere il suo sangue; peccati commessi contro un Dio, espiati da un Dio….chi crederebbe che una cosa simile viene ancora creduta?”

E' qui che il laico prende le distanze, difende la verità, guardando con commiserazione alla fede come credenza, rispettata solo per un politicamente corretto senso di tolleranza, ma in realtà considerata cosa da bambini, da sciocchi o, peggio, da ipocriti.

Il problema sta infatti proprio nel concetto di fede come credenza, che, in quanto tale, confligge spesso con la verità storica, scientifica ed assume perciò le vesti di una inaccettabile finzione.

In realtà la fede non è affatto credenza, ma il contrario: è distacco, ovvero il movimento del pensiero che, rivolto all’assoluto, spazza via ogni credenza, riconoscendone la finitezza. Come insegna san Giovanni della Croce, la fede non produce credenza o scienza alcuna, ma conduce nella “notte”, nel “nulla” - ovvero fa il vuoto di ogni presunto sapere, rendendo l’intelligenza finalmente libera da ciò che la teneva legata. Questa è propriamente la verità della fede, non delle cosiddette “verità di fede”, intese come credenze sostitutive della scienza o integrative della medesima, come se la fede completasse la scienza con chissà quale strumento.

Il patrimonio della tradizione religiosa fornisce alimento alla riflessione senza per questo dover diventare verità di scienza. Anzi, non vuole affatto diventare tale, dal momento che il suo spazio proprio è l'interiorità, il luogo della riservatezza, del silenzio, che è, anche etimologicamente, il mistico. Così ad, esempio, il racconto biblico di Abramo, che abbandona la sua patria e parte per una terra sconosciuta, sulla fiducia nella parola di un Dio che gli comanda addirittura il sacrificio del figlio, ha nutrito la profonda riflessione di filosofi come Hegel e Kierkegaard. E ciò anche se sappiamo che si tratta di un mito fondatore di una comunità, anche se non v’è mai stato un Abramo e il sacrificio del primogenito rimanda a una pratica allora comune a molti popoli semiti.

O, ancor più significativamente, il racconto evangelico della concezione verginale di Gesù fa riflettere sulla nascita di un Dio che è spirito e deve perciò generarsi non al di fuori, ma nel più profondo di noi stessi. Pensare invece che descriva un “miracolo” per convincere gli increduli della verità del cristianesimo, in primo luogo riduce la fede a credenza in storie esteriori, la trasforma in una teologia, ovvero ideologia, con un dio-ente tappabuchi, supposto come trascendente, ma in realtà a servizio dell' interesse particolare.

In secondo ma non secondario luogo, se anche la ragione cade nell'errore di considerare la fede come credenza e resta priva della fede come riferimento all’assoluto, che è ciò che la fa davvero ragione in senso pieno, si situa anch’essa sul medesimo piano della credenza, ideologia a servizio del piccolo Io e dei suoi molteplici interessi.

Tutto ciò è stato già descritto magistralmente da Hegel, nelle pagine sul conflitto tra l’illuminismo e la superstizione della sua Fenomenologia dello spirito (attenti al titolo!). L’illuminismo combatte la fede sul terreno della storia, della scienza, e vince il confronto, perché in quel campo ha ragione. Così, magari dimostrando la falsità di un documento o di un fatto storico, sul quale la fede si basa, crede di averla sconfitta. Il punto è però che quella non è fede (Glauben), ma superstizione (Aber-glauben), perché la fede non è affatto una credenza, bensì un sapere, conoscenza non di fatti esteriori ma dello spirito e nello spirito, che non dipende da questo o quel documento o fatto storico. Il dramma è che tutto ciò è ignoto non solo alla raison illuministica, ma anche alla fede, che resta quasi sempre a livello di superstiziosa credenza e perciò genera una teologia come presunto sapere.

Il conflitto ragione -fede esiste dunque solo quando la prima non è vera ragione e la seconda non è vera fede. Alla riflessione hegeliana che abbiamo appena evocato fa perciò eco la antica parola della Chandogya Upanishad: “Solamente quando si ha fede si pensa. Chi non ha fede non pensa. Pensa solamente colui che ha fede”.

Quanto tutto questo sia compatibile con le forme di cristianesimo e di chiesa oggi storicamente presenti costituisce – credo – il vero problema religioso del nostro tempo. Ben oltre lo stupore e l'ammirazione, peraltro passeggeri, che abbiamo ricordato all'inizio.