Felicità
Beatitudine, in: Felicità, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella Editori, Roccafranca (Brescia) 2011, pp. 203- 228
Per indicare la dimensione della felicità noi disponiamo di tre parole fondamentali: piacere, felicità, appunto, e beatitudine.
I
La prima è piacere (hedonè, voluptas). È chiara a tutti: riguarda la sfera del corpo, dei sensi e in particolare del senso – è curioso, infatti, che la nostra tradizione, da Aristotele in poi, parli di cinque sensi, (vista, udito, olfatto, gusto, tatto) ma poi, quando si dice il senso, con i rispettivi derivati sensualità e aggettivi - sensuale, ecc. - non si alluda affatto a nessuno dei cinque sensi e neppure a un sensorio comune ad essi legato, ma a qualcos' altro, che è la sfera sessuale. E difatti il piacere per eccellenza è il piacere sessuale, intorno a cui ruota buona parte della vita di molti uomini e donne.
Per quanto intenso, il piacere, di qualsiasi genere sia, è comunque breve, transitorio; passa in un attimo dal soddisfacimento alla tristezza, fin' anche alla nausea. Omne animal post coitum triste, dicevano i latini, che pure erano capaci di cantare – giustamente - l' alma Venus, hominum divumque voluptas.[1] La sfera del sesso è per eccellenza quella della divisione, della separatezza (lo dice la parola stessa sexus, da seco, tagliare, dividere), ovvero che immette nel due, dys, male e dolore. Anche nelle lingue indo-germaniche “soddisfatto”, “sazio” ( satis) è imparentato con “triste” ( satt, tedesco, sad inglese) e non a caso buona parte della filosofia, tanto in occidente quanto in oriente, insegna l'astensione – o almeno la limitazione allo stretto necessario – del soddisfacimento dei piaceri dei sensi, come necessaria per la felicità – che appare come qualcosa di superiore al piacere.
II
Dal piacere si passa alla felicità con un processo che non è tanto di opposizione, quanto di crescita. Perché ci si accorge che il piacere dei sensi non è poi il più forte, e non solo perché assolutamente transitorio, ma perché vi sono piaceri maggiori, che hanno assai poco a che fare coi sensi.
È così che si può passare al secondo termine: felicità ( eudaimonìa, felicitas). Essa non riguarda il corpo – o solo il corpo – ma anche l' anima. Il piacere che essa dà è maggiore di quello dei sensi: lo scriveva anche un filosofo non certo sospetto di spiritualismo, Diderot.[2]
Oggetto precipuo della filosofia – su questo concordano tutti, da Aristotele, a Cicerone, ad Agostino – la felicità è però dipendente dalle circostanze. Aristotele stesso insegna che, per esser felice, l'uomo ha bisogno almeno di alcune cose da cui la felicità stessa dipende: salute, beni, amicizia, ecc. Sia in greco che in latino la parola indica infatti prosperità, successo, buon esito, buona fortuna[ felicitas in bello, ad esempio, non è felicità in guerra, ma successo in guerra]
Tutti ricordiamo l’episodio, narrato da Erodoto,[3] dell’incontro di Creso con Solone: al sovrano lidio, che gli mostra le sue ricchezze e la sua prosperità attuale, il sapiente greco fa notare che nessuno può dirsi felice prima che abbia terminato la sua vita. Infatti, quando Creso è sconfitto e prigioniero di Ciro, ricorda la “sentenza di Solone, detta quasi per ispirazione divina, che nessuno dei viventi è felice”.[4] Solone parlava non solo al re, ma “per tutto il genere umano, e soprattutto per coloro che credono di essere felici”. Ricordiamo, per la sua bellezza, davvero classica, anche la frase che segue: “Ciro, allora, mutando consiglio e riflettendo che, essendo anch’egli uomo, stava per dare in preda alle fiamme un altro uomo che non era stato inferiore a lui per fortuna, e oltre a ciò temendo il castigo divino, e avendo compreso che nessuna delle cose umane è sicura e duratura, ordinò di spegnere al più presto il fuoco che ardeva…”
Buona o cattiva sorte: questa dipendenza dalle circostanze è ciò che rende anche la felicità cosa aleatoria – possibile, certo, e anche duratura per un certo periodo – ma pur sempre legata ad avere un buon daìmon, che significa appunto una buona sorte, buone vicende, più o meno generali, profondamente condizionate dall’ambiente: hèthos anthròpoi daìmon.[5]
Non a caso i romani potevano chiamare felice Silla, Sulla felix, per il suo successo, per la buona sorte che gli era toccata, fino alla morte, indipendentemente da quanto fosse stato giusto – assai poco, in verità.
La felicità è poi intrinsecamente difficile, in quanto legata allo psichismo, che è essenzialmente desiderio, e il desiderio è sofferenza – questa la verità inconfutabile del buddhismo –, per cui si deve considerare condizione comune non tanto la felicità, quanto la infelicità. Anche Freud parlava, non a caso, della psicoanalisi come mezzo per trasformare la miseria isterica nella “normale infelicità” dell’uomo.[6]
Non v'è dubbio, comunque, che la felicità possa avere abbia un ambito più ampio e meno egoistico del piacere, fino a toccare una dimensione addirittura universale, non più egoistica ma disinteressata, e in questo senso non siamo troppo lontani dall’opinione stoica: sì, nella giustizia, nel distacco dalla propria sorte, il saggio – ovvero l’uomo giusto – potrà in certo modo esser felice. In certo modo, però, ovvero in un modo ormai lontano dall’uso comune della parola.
Pensiamo a Katow, il rivoluzionario de La condizione umana di Malraux, che regala la sua fiala di cianuro al giovane prigioniero che temeva la morte nella caldaia di una locomotiva, affrontandola al suo posto. Felice? No, qui bisogna usare qualche altra parola, che rimanda a una dimensione di moralità, di nobiltà, fin quasi verso la santità.
III
Veniamo così alla terza parola: beatitudine ( makarìa, beatitudo). Notiamo innanzitutto che essa è quasi scomparsa dalla lingua quotidiana, che la usa ormai solo in un vago senso religioso, senza uso concreto qui ed ora, nel mondo presente, reale.
Perché la parola è quasi scomparsa, o comunque relegata in una sfera del tutto marginale, evanescente? È molto semplice. Perché è scomparso il suo terreno di riferimento, che non è il corpo, non è l’anima, ma è lo spirito.
È questo il termine la cui scomparsa segna un’intera civiltà (o inciviltà).
Come notava con la sua lungimiranza quasi profetica Nietzsche, noi dobbiamo pagare il prezzo di molti secoli di cristianesimo e lo pagheremo, lo stiamo infatti pagando, precipitando a lungo nell’opposto, ovvero nei valori contrari a quelli per tanto tempo sostenuti dal mondo cristiano. Non v’è dubbio che uno di questi fosse il primato dello spirito sull’anima e dell’anima sul corpo. Ai nostri giorni, infatti, lo spirito è del tutto scomparso, l’ anima si è ridotta a psiche e quest’ultima a povera dipendenza dal corpo. È infatti il corpo che regna sovrano, a tutti i livelli, dalle palestre fino ai monasteri, dove ormai si organizzano corsi di yoga, di tecniche psico-fisiche di rilassamento, ecc.
Per la maggioranza questo è senza dubbio un progresso, un trionfo della modernità, ecc. E poi, che c’è di male? Lasciamo stare cosa c’è o no di male e limitiamoci alla constatazione che, scomparso lo spirito, è scomparsa, appunto, anche la beatitudine, che è il suo modo di essere, e sono rimasti solo la felicità, correlata alla sfera psichica, e il piacere, correlato al corpo.
Sicuramente una gran parte della responsabilità va alla decadenza religiosa del nostro tempo, a quell’anticristianesimo che Nietzsche vedeva arrivare, malamente contrastato anche da parte dei cristiani stessi, che hanno cercato soccorso là dove il soccorso non poteva venire, ossia nel biblicismo, imboccando cioè la strada di una fede come credenza esteriore, storica, sociale, e scartando quella dell’interiorità – che è il luogo proprio dello spirito.
Sta di fatto, comunque, che non si sa nemmeno più cosa sia spirito. Eppure basterebbe prendere il De anima di Aristotele, ove il Filosofo, dopo aver parlato dei sensi, parla dell' intelletto, che dipende dal sensibile, e che perciò è passivo (nus patetikòs), limitato ai singoli e mutevole con le circostanze condizionato, non libero. Però parla poi di un intelletto attivo (nus poietikòs) che non dipende dal sensibile, non dipende dalle circostanze, ma ne è separato, distaccato (choristòs); un intelletto che perciò non è più il mio diverso dal tuo, ma unico, universale, eterno, divino: esso solo è ciò che veramente è.[7]
Sottolineiamo che questo solo intelletto è, in quanto appunto separato, non condizionato - libero. senza di esso non ha alcun senso parlare di libertà, che è mera retorica, pura illusione. E qui ci vorrebbe un po’ di buddhismo, con la sua lezione della “genesi interdipendente” ( paticca samuppada) di tutte le cose, per rendersene conto[8] – ma lasciamo perdere.
È appunto l’intelletto attivo che ha preso nella tarda antichità, per l'influenza soprattutto dello stoicismo, sempre più il nome di spirito ( pneuma), per cui i teologi cristiani del medioevo potevano a buon diritto scrivere: Spiritus sanctus est lumen intellectus agentis, semper lucens.[9]
Essi dicevano però anche, giustamente, idem amor et spiritus sanctus, perché accanto alla dimensione noetica, intellettuale, “spirito” ha anche una dimensione erotica, in quanto il distacco dal particolare è possibile solo perché v'è l'amore all' universale, secondo la logica mirabilmente descritta dal Convito platonico.
L' emergere dello spirito presuppone perciò la fine del legame al particolare, ovvero la fine dell' egoità, della volontà appropriativa, quella evangelica rinuncia a se stessi[10] che i medievali chiamarono “morte dell'anima”,[11] dopo la quale soltanto v'è la nascita, anzi, la rinascita spirituale.[12]
Questa morte non è perciò funerea, ma vitale: è la dilatazione, per cosi dire, dell’anima, che la fa passare in spirito - Teresa d' Avila[13] usa perciò l'immagine della farfalla che nasce dalla crisalide dell'anima - e dà beatitudine ( makarìa è legato a makròs, grande), per cui la felicità cessa di dipendere dalle circostanze e diventa per così dire assoluta.
Potremmo dire dunque che, come la felicità è in certo modo il massimo del piacere, che si trasforma, con una metàbasis eis àllo ghènos, così la beatitudine è il massimo della felicità, che si trasforma anch’essa in qualcosa di diverso.
La sfera spirituale costituisce infatti una nuova dimensione ontologica, ovvero una realtà profondamente diversa – anzi, per molti versi opposta[14] - a quella della psiche, in cui una delle caratteristiche fondamentali è l'essere inattaccabile dalle circostanze, che sono tutte quante guardate per così dire dall'alto, come uno spettacolo più o meno bello, ma da cui non si è, comunque, affetti, in una condizione che perciò si può chiamare a buon diritto beatitudine, perché in essa non si ha, non si prova gioia, ma si è la stessa gioia, come scriveva la beghina Margherita Porete, molti secoli fa:
In questo senso non si ha beatitudine, ma si è beatitudine, perché questa non è una condizione accidentale e transitoria, come il piacere per il corpo e la felicità per la psiche, ma una realtà ontologica nuova, in cui :
L'anima distaccata nuota nel mare della gioia, ovvero nel mare di delizie fluenti e scorrenti dalla divinità, e non sente nessuna gioia, poiché essa stessa è gioia, e nuota e fluisce nella gioia senza sentire alcuna gioia, poiché essa dimora nella gioia, e la Gioia dimora in lei, è gioia essa stessa, in virtù della Gioia, che l'ha trasformata in se stessa.[15]
Lo ripete ai nostri giorni Henri Le Saux :
Gioia profonda, gioia <mia>. Ma essa non è mia. È la gioia essenziale in cui, liberato dalla limitazione del mio ego, io sono, per così dire, ormai sprofondato. Una farfalla, liberata dai limiti dell'io impuro, dell'io puro, uscita dalla crisalide, vola felice nella profondità, nell'abisso, nel vuoto dell'io divino ed essenziale.[16] La <mia> gioia non può essere piena. Piena è solo <la> gioia che trascende tutti i sentimenti, tutte le esperienze, quindi tutti gli attributi dell'io. Andare al di là della gioia è uno degli stadi della meditazione buddista. Quando la <mia> gioia diventa piena, cessa di essere mia, e, poiché essa è piena, è la Gioia, la Pace, primordiale, essenziale, la stessa che Dio gusta in sé, in <me >, in ogni essere.[17]
allora tutto appare bene e buono; tu tutt’uno con le altre creature, con tutto il cosmo, con Dio – che non è più il Totalmente altro, supremo idolo, ma il profondo di te stesso, e di tutto l’essere.
Non v’è però più un ego, una egoità, dal momento che, come si è detto, non v’è più un volere autoaffermativo. Non meravigliano allora le parole dell’ Anonimo Francofortese, autore della cosiddetta Teologia tedesca, che trasmette l’insegnamento di Eckhart e Taulero: Questo mondo è un paradiso, o almeno un suo sobborgo, appena scompare la volontà propria.[18] Non a torto Schopenhauer considerava la Teologia tedesca - insieme a Platone, Buddha, Lao Tse - uno dei testi fondamentali del pensiero, di ogni tempo.[19]
La grande saggezza dell’ India è assolutamente concorde, infatti: le Upanishad insegnano che v’è beatitudine dove finisce il desiderio, perché lì è spirito, l' atman dell’uomo tutt’uno con l’ atman divino:
Quando tutti i desideri annidati nel cuore si dileguano, allora il mortale diventa immortale; in questa vita consegue il brahman.[20]
E il Buddha insegna lo stesso: la liberazione è grande felicità.[21]
La fine del desiderio significa vedere il presente con la bellezza dell’eterno, “senza perché”, in quella dimensione estetico-estatica in cui tutto appare come grazia,[22] nel duplice senso, appunto, religioso ed estetico del termine, ove tutto quel che è, è bello e buono. Non a caso, citando gli stoici, la Weil scriveva che “Ogni desiderio uccide l’ atman. Uccide l' atman chi desidera che non sia ciò che è”.[23]
Il maestro dello yoga, Patañjali, insegna che l’anima distaccata, priva di ogni desiderio, non ha più alcun dolore:
Simile a colui che dall’alto di una vetta osserva i sottostanti, il saggio, attinta la calma della conoscenza, guarda, ormai affrancato dal dolore, a tutte le creature, che invece ne sono afflitte.[24]
Anzi, l’anima ritrova la sua vera natura, che è quella di essere pura luce:
Allora l’anima, ridotta unicamente alla sua natura propria, non è che luce, pura e isolata. Pura e isolata, l’anima viene a consistere unicamente della sua propria luce.[25]
Si noti che questo è il medesimo linguaggio, con le stesse immagini, di quello che, a buon diritto, si può considerare “figura normativa di vita spirituale”[26]
Quando l’anima non si disperde nelle cose esteriori, giunge a se stessa, e risiede nella sua luce, semplice e pura.[27]
Perché il concorde insegnamento spirituale d’oriente e d’occidente è questo: il centro dell’anima, il fondo dell’anima, lo spirito, è Dio. Così la grande parola della mistica indiana: Tat tvam asi : “questo tu sei”.[28] Essa coincide con quella dei mistici, anche di quelli cattolici e canonici per eccellenza, come Teresa d' Avila[29] e Giovanni della Croce.[30]
Centro dell'anima, perfetta luce, possono essere considerate espressioni metaforiche che comunque rimandano ad un' esperienza, che è, appunto, quella della beatitudine, che è l’oggetto del nostro discorso.
Ora, il punto è che essa non è affatto una cosa eccezionale, ma al contrario, semplicissima ed essenziale, che ciascuno può ritrovare in se stesso, in verità, seguendo il filo più semplice che l’uomo abbia: l’amore.
Infatti ciò che sei è ciò che pensi e vuoi, perché questo si è davvero: “tu sei una cosa sola con quello che in atto pensi, mediti”, ovvero ami, giacché “ad ogni pensiero o meditazione segue sempre l'amore e il pensiero stesso o meditazione spira il fuoco dell'amore”;[31] ovvero tu divieni e sei quello che pensi ed ami:
Uomo, in quel che ami sarai trasformato: Diventi Dio se l'ami, terra se terra ami.[32]
Non v'è dubbio che sempre si ami, e che l'amore inizi sempre come desiderio di un bene particolare, ma quando è grande, forte, l' amore diventa perciò distacco,[33] finché si comprende che, in realtà, è l'amore stesso, il Bene in sé, che, da sempre, si sta amando.[34] E, siccome ci si trasforma in ciò che si ama, quando è ormai l'Amore che si ama, si diviene e si è l' Amore stesso.
Esso appare davvero divino, perché assoluto : “divino” non significa affatto che rimanda ad altro, ma, al contrario, che non sopporta alcun rimando ad altro: rimandare ad altro significherebbe che esso non è vero. Perciò non possiamo dire “di Dio” questo infinito amore che su tutto si stende: certamente in certo modo è nostro, ma non c'è più un io ad amare, non c'è più neppure la creatura, e nemmeno “Dio”, ma un unico Uno, un unico amore, un’ unica luce: “Dio” c’è quando c'è la creatura, io o prossimo che sia, ma quando sparisce questa, sparisce anche “Dio”.[35]
È attraverso l’amore e l’amare che si diviene l’ amore, cioè l' essere. Non a caso i versi silesiani intitolati “Bisogna essere l’essere” parlano in realtà dell’amore:
Praticare l’amore è grande fatica: Bisogna essere, come Dio, l’Amore stesso.[36]
Essere l'essere : si faccia caso a questa fortissima espressione, che non è affatto retorica. Il poeta vuol dire qui che quando finisce l'egoità determinata in un volere, cioè in un amore, determinato,[37] si ha quella esperienza di beatitudine estatica di cui sopra dicevamo, ovvero quella sorta di trasformazione ontologica per cui non v'è più il piccolo io, destinato alla finitezza e alla morte, ma un essere per così dire eterno.
Possiamo dire così: la beatitudine è quando l'essere non è più altro, ovvero quando termina l'alterità: perciò il poeta mistico, in spirito assolutamente eckhartiano, scrive:
Non ottiene l'uomo perfetta beatitudine se prima l'unità non ha inghiottito l'alterità.[38]
Contro ogni idea riduttiva della possibilità di felicità dell’uomo, il maestro domenicano parla infatti di una “gioia e una beatitudine di cui l’anima gioisce, e che è la stessa gioia e beatitudine di cui gioisce Dio nella sua natura divina”, proprio perché là “non vi è che Uno, e dove è Uno è tutto, e dove è tutto è Uno”. Dove è l’anima è Dio, e dove è Dio è l’anima: “questa è una verità certa. Se dicessi che non è così, parlerei falsamente”.[39]
Fine dell' alterità, essere l'essere, appunto, essere Uno: ein einig Ein, “un unico Uno”. L' Uno scaccia il male, ovvero il pensiero cattivo, malvagio, malus, che fa male ed è male. Cogitatio vana, sine intellectu,[40] ovvero pensiero stupido, non-pensiero, è il pensiero del male. Il pensiero del male viene spontaneo dal dualismo, da quel due che divide tra bene e male e significa tanto due quanto male. In-comprensione – alla lettera, non portare ad unità - e sofferenza sono infatti strettamente legate, anzi, la stessa cosa.
Al contrario, quando il due, l'alterità, è scomparsa, v'è la beatitudine: pensiero solo del Bene.
IV
Il Bene, infatti, che è beatitudine, è opposto tanto a piacere quanto a felicità.
Il nesso fondamentale, che il nostro tempo sembra aver dimenticato, tra il piacere e l'ingiustizia, lo aveva colto la filosofia antica: “Chi ama i piaceri ama anche il proprio corpo; chi ama il proprio corpo ama anche le ricchezze e chi ama le ricchezze è necessariamente ingiusto”: così Porfirio, il filosofo neoplatonico, scriveva verso il 300 d.C. in quella Lettera a Marcella che è stata definita il “testamento morale dell’antichità”.[41]
Quella del piacere è ovvio che sia una dimensione per eccellenza egoistica: voluptas viene da volo, voluntas, volere, là dove necessariamente il mio è diverso dal tuo, il conseguimento dell’oggetto da parte mia è opposto al conseguimento da parte tua: qui può aver luogo, certamente, il diritto, ma non la giustizia, che, come notava Simone Weil, sono due cose opposte.[42] Ma anche per la felicità, sfera della psiche - non dell’anima, parola intrisa di senso religioso, che inclina già verso lo spirituale - non è molto diverso.
Cosa aleatoria, che va e viene; dura molto o dura poco; c’è un istante e non più un istante dopo – segue infatti le vicende psicologiche, svolazzante di qua e di là ed effimera come quella farfalla che è la psiche ( psychè in greco significa infatti tanto farfalla quanto anima). Questo lo sappiamo tutti, e sappiamo anche come la morale, ossia il nostro comportamento, dipenda dallo stato d’animo e quindi da ciò che ci sembra positivo o negativo per esso. Può anche essere buono, generoso, altruista, se e quando ciò va incontro al nostro obiettivo di felicità, ma altrimenti è il contrario. Il particolare può anche coincidere con l’universale, ovvero il nostro bene con quello degli altri, ma in genere non è così, perché la psiche è e si muove in modo essenzialmente egoistico.
Infatti credo che ben pochi di noi consentirebbero con l' opinione stoica, per cui il sapiente sarebbe felice anche nel toro di Falaride[ il toro di bronzo, cavo, entro il quale il tiranno agrigentino bruciava vivi i nemici, che, urlando per il dolore, facevano emettere al toro muggiti ], in quanto la felicità consiste nella virtù e il sapiente, che, solo, è virtuoso, è perciò il solo felice, indipendentemente dalle circostanze. Ma, d’altra parte, come non consentire con le parole di Giovenale:
Esto bonus miles, tutor bonus, arbiter idem Integer; ambiguae si quando citabere testis Incertaeque rei, Phalaris licet imperet, ut sis Falsus, et admoto dictet periuria tauro,
Summum crede nefas animam praeferre pudori, Et propter vitam vivendi perdere causas.[43]
Questi versi non li abbiamo citati a caso. Sono, infatti, prediletti da Kant, che li cita più volte,[44] ma soprattutto in quella Critica della ragion pratica ove è rigorosamente affermato che “precisamente il contrario della moralità ha luogo se vien fatto motivo determinante della volontà il principio della propria felicità”.[45]
Questo è da sottolineare. Là dove predomina il principio della ricerca della propria felicità - quella sancita, ad esempio, come diritto primario dalla Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’ America – non v’è dubbio che governi l’egoismo e la negazione della moralità, della giustizia, la quale esige, al contrario, l’ equanimità, il distacco non solo dal proprio piacere, ma anche dalla propria sorte, dalla propria felicità, almeno come si intende comunemente la parola.
Piacere e felicità sono infatti dimensioni intrinsecamente egoistiche, nelle quali il mio esclude il tuo, il particolare esclude l’universale, che può esser presente solo accidentalmente. Sono perciò dimensioni intrinsecamente ingiuste.
Per rendersene conto basta sostituire a “ingiusto” l’equivalente “iniquo”. Iniquo, ossia, alla lettera, non equo, ovvero incapace di considerare il bene degli altri alla stessa stregua del proprio, per niente di meno. Contro la definizione giuridica, del diritto giustinianeo, per la quale giusto è chi dà a ciascuno il suo, sei iniquo, scriveva Meister Eckhart, se preferisci che mille marchi d’oro siano tuoi piuttosto che di un altro, o che la salvezza della tua vita o della tua anima sia preferibile a quella di un altro.[46] Perché giusto, equo, è solo colui che è di equo animo, ovvero di animo uguale, in tutte le cose, e solo lui è capace di giustizia.
Di proposito ho citato queste frasi, certamente inaudite e assurde per la coscienza comune, perché da esse si può almeno intuire quanto tale coscienza, e tutto il nostro mondo con essa, abbiano perduto la realtà dello spirito e la beatitudine che lo costituisce. Infatti spirito è l’essere, in universale: non più il corpo, individuato nella carne e nella materia, e neppure la psiche, determinata dalla genetica e dalle circostanze in un soggetto che è perciò limitato – il piccolo Corrado o Enrico, direbbe ancora il nostro maestro medievale. È per questa universalità che, in modo del tutto naturale, senza sforzo alcuno, il bene degli altri ti è caro quanto il tuo, assolutamente in niente di meno, e così diventa tua tutta la felicità, tutta la gioia degli altri, in una beatitudine sconfinata – exsuperans omnem sensum, come dice san Paolo.[47] Qui non è possibile una dimostrazione estrinseca; occorre averne esperienza: gustato spiritu, desipit omnis caro : la carne perde di sapore solo quando si è provato il gusto dello spirito. E questo è il gusto della libertà che non sussiste né a livello di corpo né di psiche, entrambi assolutamente condizionati : l’esperienza della filosofia greca coincide in questo con l’insegnamento cristiano : ubi spiritus domini, ibi libertas.[48]
Possiamo, allora, concludere con un testo a tutti noto (ma, forse, non altrettanto conosciuto, potremmo hegelianamente dire), ovvero le beatitudini evangeliche.[49]
Esse sono sì indicate prevalentemente con verbi al futuro - la beatitudine dei miti, di coloro che piangono, che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, di quelli che hanno il cuore puro, dei pacifici - ma non sempre: nella prima e fondamentale delle beatitudini, Beati pauperes spiritu, il regno dei cieli ( he basilèia tòn ouranòn) è detto, al presente, come già qui, e lo stesso in quella che proclama beati “i perseguitati per causa della giustizia”.
La paupertas spiritu consiste infatti nel distacco – nulla avere, nulla volere, nulla sapere -[50] e, nel distacco, essere sempre assolutamente uguali, che è poi la giustizia. L’uomo distaccato, l’uomo giusto, è uguale in tutte le cose, perché è in questa uguaglianza, in questa universalità, che sta la giustizia, ed è in questa giustizia che sta la beatitudine.
Si comprende allora in che senso la beatitudine sia non una altalenante condizione psicologica, ma una stabile condizione ontologica: l’essere spirito, il “regno dei cieli”, l’ eterno, presente, qui ed ora. Perché il più chiaro segno della beatitudine è proprio il senso della assolutezza del presente, il presente vissuto come eterno, nella fine della dimensione alienante, dualistica e dolorosa del tempo ( tempus, da tèmno, divido). Il “dolce e cristiano poeta” che abbiamo già citato, e con cui chiudiamo, scrive infatti:
Se ti sembra più lunga l’ eternità del tempo Stai parlando di pena, non di beatitudine.[51]
[1] Così inizia il De rerum natura di Lucrezio.
[2] “Non disprezzo i piaceri dei sensi; ho anch'io un palato, che è accarezzato da un cibo delicato o un vino delizioso; ho un cuore e due occhi, e mi piace vedere una bella donna, mi piace sentire sotto la mano la fermezza e la rotondità del suo seno, premere le sue labbra con le mie, attingere la voluttà nei suoi sguardi, spirarne tra le sue braccia. Qualche volta, con i miei amici, una partita di piacere, anche un po' tumultuosa, non mi dispiace; però, non ve lo nasconderò, mi è ancora infinitamente più dolce aver aiutato l'infelice, aver portato a termine una questione spinosa, dato un consiglio salutare, fatto una lettura gradevole, una passeggiata con un uomo o una donna cari al mio cuore, passato qualche ora istruttiva con i miei figli, scritto una buona pagina, compiuto i doveri del mio stato, detto a colei che amo cose tenere e dolci, che la spingono a buttarmi le braccia al collo” ( Il nipote di Rameau, tr. di L. Magrini, Garzanti, Milano 1982, p. 33).
[3] Storie I, 32.
[4] Ibid., I, 86.
[5] Eraclito, Diels-Kranz 22 B 119. “Il daìmon per l’uomo è l’ethos”: ogni traduzione rischia di banalizzare la profondità del frammento.
[6] Cfr. S. Freud, Il problema della felicità, a cura di Sabina Moser, Loffredo, Napoli 1996, p. 176.
[7] Cfr. Aristotele, De anima, 430 a.
[8] Mi permetto rimandare al capitolo sul buddhismo del mio La mistica delle grandi religioni, Le Lettere, Firenze 2010.
[9] La frase è di Emerico di Campo. Cfr. R. Guarnieri, Il movimento del Libero Spirito. Tesi e documenti, Edizioni di Storia e Letteratura. Roma 1965, p. 463.
[10] Cfr. Lc 9, 23-24 ; Gv 12, 25; Mt 16, 25; Mc 8, 35.
[11] Rimando, in proposito, al mio La morte dell'anima. Dalla mistica alla psicologia, Le Lettere, Firenze 2006.
[12] Cfr. Gv 3, 3-7.
[13] Cfr. Teresa d' Avila, Castello interiore, Quinte mansioni, cap. II ss.
[14] Cfr. 1 Cor 2, 14: “L'uomo psichico ( anèr psychikòs) non accetta le cose dello spirito di Dio; difatti per lui sono follia e non le può comprendere, perché sono esaminate spiritualmente. L'uomo spirituale ( anèr pnematikòs) invece giudica tutto e non è giudicato da nessuno”.
[15] Cfr. Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, a cura di G. Fozzer, R. Guarnieri, M. Vannini, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, cap. 28, p. 213.
[16] Vedi nota 13.
[17] Cfr. H. Le Saux- Swami Abhishiktananda, Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyasin hindu, 1948-1973, a cura di R. Panikkar, Mondadori, Milano 2001, p. 102.
[18] Cfr. Anonimo Francofortese, Teologia tedesca. Libretto della vita perfetta, a cura di M. Vannini, Bompiani, Milano 2009, cap. 50, p. 215.
[19] Cfr. A. Schopenhauer, Sämtliche Werke, Wiesbaden 1947-1961, vol. II: Die Welt als Wille und Vorstellung, I, IV, § 68, p. 457; vol. III, II, Ergänzungen zum vierten Buch, IV, cap. 48, p. 705, vol. VI: Parerga und Paralipomena, II, cap. 1, § 10, p. 11; cap. 5, § 69, p. 107; cap. 14, § 164, p. 334; cap. 25, § 303, p. 612. Cfr. anche il mio saggio: Au delà de Platon et de Bouddha: la Theologia Deutsch, in <Revue de Sciences Religieuses> 75, 4, 2001, pp. 563-571.
[20] Brhadaranyaka Upanishad IV, 4, 7 ( Upanishad antiche e medie, a cura di P. Filippani-Ronconi, Boringhieri, Torino 1974, p. 140).
[21] Cfr. Thich Nhat Hanh, Vita di Siddharta il Buddha narrata e ricostruita in base ai tesi canonici pali e cinesi, Ubaldini, Roma 1992, p. 365.
[22] Mi permetto rimandare qui al mio Sulla grazia, Le Lettere, Firenze 2008. “Senza perché” ( sans pourquoi, sonder warumbe, ecc.) è l’espressione che nella storia della mistica indica quell’essere ed essere percepito delle cose sub specie aeternitatis che appartiene alla dimensione dell’ eterno e della pura bellezza. Basti pensare al celebre distico I, 289 del Pellegrino cherubico di Angelus Silesius (ed. it. a cura di G. Fozzer e M. Vannini, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1989) sulla rosa “senza perché”, che è così bella in quanto distaccata dalla sua bellezza, come spiega il distico immediatamente precedente ( Die gelassene Schönheit).
[23] Cfr. S. Weil, Quaderni, I a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982, p. 281.
[24] Cfr. Patañjali, Aforismi sullo Yoga ( Yogasūtra), a cura di C. Pensa, Boringhieri, Torino 1978, p. 72 (Si tratta, in realtà, di una citazione dal Mahabharata, XII, 17, 20, 151, 11).
[25] Ibid., p. 183.
[26] Così lo definisce A. M. Haas, nel suo Meister Eckhart, normative Gestalt geistlichen Lebens (tr. it.: Introduzione a Meister Eckhart, a cura di M. Vannini, Nardini, Fiesole 1997.
[27] Cfr. sermone 71, Surrexit autem Saulus de terra (Meister Eckhart, I sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline, Milano 2002, p. 494). Spiegando la visione sulla via di Damasco, il maestro domenicano sta qui dicendo che Paolo vide Dio come nulla, cioè come luce, e così trovò anche se stesso. Silesius canta: “Io sono una luce eterna, che brucia ininterrotta; Olio e stoppino è Dio, il mio spirito il vaso” ( Pellegrino cherubico, I, 161 : “La luce eterna”). Un' immagine simile è quella dell'anima come puro occhio, solo occhio, solo un vedere, in quanto priva di volizioni o contenuti e solo contemplazione, luce nella luce. È immagine che si trova in tutte le tradizioni spirituali, ma prevalentemente associata a un concetto teistico: cfr. ad es. lo Pseudo-Macario: “L'anima resa degna dello Spirito, fonte della sua luce, diventa tutta luce, tutta volto, tutta occhio; non vi è in essa parte alcuna che non sia ricolma degli occhi spirituali della luce, cioè non vi è in essa nulla di tenebroso, ma è trasformata tutta intera in luce e spirito ed è tutta colma di occhi; non ha alcuna parte posteriore o che stia a tergo, ma è volto in ogni lato...” (Pseudo Macario, Spirito e fuoco. Omelie spirituali[Collezione II], Qiqajon, Magnano 1995, p. 56). Ben nota la frase di Eckhart che suscitò l'entusiasmo di Hegel: “L'occhio nel quale vedo Dio è lo stesso occhio con cui Dio mi vede; l'occhio mio e l'occhio di Dio non sono che un solo occhio, una sola visione, una sola conoscenza, un solo amore” (sermone 12, Qui audit me, in I sermoni, cit., p. 172).
[28] È la celebre Sesta lettura della Chandogya Upanishad, cap. 12, nella quale il padre svela al figlio come tutta la realtà sia costituita da spirito, atman: “e questo sei tu”.
[29] Cfr. ad es. il Castello interiore, Settime mansioni : “En metiendo el Señor a el alma en esta morada suya, que es el centro de la mesma alma, ansì como dicen que el ciel impìreo – adonde està Nuestro Señor – no se mueve como los demàs, ansì parece no hay los movimientos en esta alma, en entrando aquì, que suele haver en las potencias y imaginaciòn, de manera que la perjudiquen ni la quiten su paz[…] Este centro de nuestra alma – u este espìritu (Cfr. Santa Teresa de Jesùs, Obras Completas, por el Padre Efrén de la Madre de Dios, B.A.C., Madrid 1954, Vol.II, p. 481).
[30] Cfr. ad es. Fiamma viva d’amore B, I, 9-12.
[31] Cfr. Eckhart, Commento al vangelo di Giovanni, a cura di M. Vannini, città Nuova, Roma 1992, nn. 507 e 509. La Bhagavad-Gita, 17, 3, gli fa eco: “Quale è la fede dell'uomo, quello egli è”.
[32] Angelus Silesius, Pellegrino cherubico, V, 200. Il titolo: “Ci si trasforma in quel che si ama (Da S. Agostino)” rimanda al celebre passo “Come chi ama la terra sarà terra, così chi ama Dio sarà Dio” (Aug., In Ep. Joh. II). Chi ama il bene lo ha in sé; chi ama Dio ha già quel che ama, scrive Eckhart nel Commento al vangelo di Giovanni, cit., nn. 387, 731.
[33] Homo divinus nihil amat, scrive ancora Eckhart ( Commento al vangelo di Giovanni, cit., n. 390), perché l'amore non è un atto, ma un essere Al culmine della sua esperienza estatica, Maria Maddalena de' Pazzi dichiara che la specie suprema d'amore è quello “morto”, che non desidera, non vuole e non cerca cosa alcuna, perché l'anima che possiede questo amore nulla vuole, nulla sa e nulla vuol potere, e neppure desidera intendere, conoscere e gustare Dio, “per la morta relassazione che ha fatta di sé in Dio” (Cfr. Maria Maddalena de' Pazzi, Le parole dell'estasi, a cura di G. Pozzi, Adelphi, Milano 1992, pp. 178 s.) Che la mistica fiorentina parlasse come Eckhart non deve meravigliare, vista la sua lettura delle opere di Taulero (cioè di Eckhart medesimo). Si tratta sempre di comprendere la fondamentale lezione platonica, ovvero il profondo, inscindibile rapporto tra amore e distacco. “This relation between indifference and love is indeed the most difficult point in philosophical thinking” scrive giustamente, discutendo di Hegel, il filosofo buddhista Yoshinori Takeuchi ( Hegel and buddhism, in <Il Pensiero>, VII, 1962 n. 1.2, pp. 5-46).
[34] Amare amabam, scrive Agostino, Confessioni III, 1, ricordando i suoi amori giovanili: era in realtà l' amore che stava amando, mentre amava le fanciulle; ma allora non lo aveva ancora capito.
[35] Cfr. Eckhart, sermone Nolite timere eos ( I sermoni, cit., p. 624).
[36] Pellegrino cherubico, I, 71.
[37] “L' amore di questo o quel bene è amore di se stesso, ossia di chi ama, mentre l' amore del Bene è amore di Dio”: scrive Eckhart, Il libro delle parabole della Genesi, a cura di M. Vannini, Morcelliana, Brescia 2011, n. 195.
[38] Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, IV, 10. Il distico è intitolato : “La perfetta beatitudine”.
[39] Cfr. sermone 67, Deus caritas est ( I sermoni, cit., p. 466).
[40] Così scrive Eckhart nel suo Commento alla Sapienza, a cura di M. Vannini, Nardini, Firenze 1994, n. 10. Cfr. in proposito anche il capitolo <Hegel: il pensiero dell'altro e il male> del mio Mistica e filosofia, Le Lettere, Firenze, 2007.
[41] Cfr. Porfirio, Lettera ad Anebo. Lettera a Marcella, a cura di G. Faggin, ed. Fussi. Sansoni, Firenze 1954, p. 103: “ È impossibile che chi ama Dio ami anche i piaceri; chi ama i piaceri ama anche il proprio corpo; chi ama il proprio corpo ama anche le ricchezze, e chi ama le ricchezze è necessariamente ingiusto. E l’ingiusto è empio verso Dio e i genitori e malvagio verso gli altri, se anche sacrificasse delle ecatombi e adornasse i templi di mille doni, sarebbe empio, irreligioso e sacrilego nelle intenzioni. Perciò chi ama il corpo deve essere evitato assolutamente come irreligioso e impuro”.
[42] Cfr. soprattutto il bellissimo La persona e il sacro, in: Simone Weil, Morale e letteratura, a cura di Nicole Maroger, Ets, Pisa 1990, pp. 49 ss.
[43] Sat. VIII, vv. 79-84.
[44] Cfr. I. Kant. Critica della ragion pratica, tr. it. di F. Capra, ed. Laterza, Bari 1971, p. 190.
[45] Cfr. ibid., p. 45.
[46] Cfr. ad es. il sermone Iustus in perpetuum vivet ( I sermoni, cit., pp. 129 ss.), oppure il sermone Ego elegi vos ( ibid., pp. 262 ss.).
[47] Fil 4, 7. Da sottolineare la pregnanza della traduzione latina; l' originale greco dice: yperekùsa pànta nùn.
[48] 2 Cor 3, 17.
[49] Cfr. Mt 5, 4-12.
[50] Mi riferisco qui al sermone più celebre di Eckhart, che spiega appunto il versetto Beati pauperes spiritu (I sermoni, cit., pp. 388-396) e mi permetto anche rimandare al mio Prego Dio che mi liberi da Dio, Bompiani, Milano 2010, incentrato proprio sul sermone eckhartiano.
[51] Pellegrino cherubico, II, 258. Silesius è chiamato “dolce e cristiano poeta” da Schopenhauer, che lo cita più volte, definendolo anche “ ammirabile incommensurabilmente profondo” (cfr. la Introduzione al Pellegrino cherubico, cit., p. 68).