Senza mentire (pensieri sul limite tra S. Weil e F. Hoelderlin)
A mo' di introduzione
“Senza mentire” è un programma difficile, quasi impossibile. Omnis homo mendax, ogni uomo è menzognero, recita infatti il Salmo e tutta la riflessione spirituale lo conferma. Homo non habet de se nisi mendacium, di suo l'uomo non ha che menzogna, stabilisce un canone del concilio di Orange, ispirato ad Agostino.
Stiamo parlando infatti non delle menzogne che, consapevolmente, l'uomo dice ad altri per qualche fine – qui è senza dubbio possibile non mentire - ma di qualcosa di molto peggio, ovvero delle menzogne che l'uomo costruisce per se stesso, per sostenere l' egoità – menzogne dunque importanti ed essenziali, che riguardano la vita e i suoi valori; menzogne costruttrici di ideologie, più o meno ingenue, più o meno strutturate, a seconda del grado di cultura. Questa è la menzogna, l'inganno peggiore, giacché, come diceva Platone, l'ingannatore è dentro di noi, siamo noi stessi.
Il mentire è in questo senso l'attività costante della mente : lo dice anche la parola, sostantivo e verbo uniti: la mente mente, ovvero il pensiero è costante costruttore di menzogne. Frutto di menzogna sono le filosofie, come segnala Nietzsche:
“Ogni filosofia è una filosofia dell'apparenza […] c'è qualcosa di arbitrario nel fatto che il filosofo si sia fermato qui, abbia guardato indietro, si sia guardato attorno, non abbia qui scavato più a fondo, abbia messo da parte la vanga; c'è anche qualcosa di sospetto in tutto ciò. Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera”.
La menzogna però, alla lunga, non è mai positiva, non è mai produttiva, perché la realtà prende poi sempre il sopravvento e allora l'uomo si trova di fronte all'orrore del nulla, al nichilismo, quando è costretto ad ammettere che es fehlt das Ziel, “viene meno il fine”, come scrive ancora Nietzsche, che è una delle presenze filosofiche più fortemente percepibili in queste pagine.
In un certo senso però il mentire è necessario, perché lo richiede la vita stessa, che esige comunque dei fini, per cui si potrebbe pensare che non vi sia scampo, e che il mentire sia insopprimibile dalla condizione umana. Ma scampo v'è, ed è dato dalla consapevolezza: quando riconosciamo di stare costruendo pensieri finalizzati al nostro vivere, ovvero di stare mentendo, allora l'onestà di questo riconoscimento, di questo sapere, toglie via la menzogna: chi sa di stare mentendo, sta onorando la verità.
Tra le menzogne un ruolo primario lo ha la menzogna religiosa, tanto più importante in quanto il religioso è ciò che più di ogni altra cosa fonda i valori su i quali la nostra vita può appoggiarsi. Rendersi conto che ciò che interessa davvero è la propria vita e che la religione è solo uno strumento, che si lascia appena se ne trova uno migliore, è una operazione di onestà che pochi compiono. Occorre per questo un amore di verità, un distacco, forte ed essenziale come quello che spingeva Eckhart a pregare Dio che lo liberasse da Dio, ovvero ad allontanarsi da tutte le menzogne teologiche per avvicinarsi davvero alla verità. La teologia come menzogna, appunto: questo è uno dei temi centrali dei pensieri raccolti nel presente libro. La teologia cui ci si riferisce è ovviamente quella biblico-cristiana, con il suo Dio-Altro, essere grosso e forte, alla cui ombra ci si ripara per non-essere, per esimerci dall'essere, ma di cui, nello stesso tempo, ci si appropria, a sostegno della propria egoità.
Il rapporto con questo ente fittizio stravolge tutta la realtà, che non è più quella che essa è davvero, senza infingimenti, ma il cui essere, il cui valore, il cui significato, viene visto tutto in relazione con questo Altro. Così, ad esempio, la sventura viene letta come punizione divina, o come medicina, o in rapporto a un premio futuro, o in mille altri modi, che le fanno perdere comunque il suo vero essere, che è semplicemente l'essere sventura. E lo stesso può dirsi di ogni altro evento della vita umana, buono o cattivo che sia.
La contemplazione della vita umana così come essa è, soprattutto nel suo essere esposta alla finitezza e alla morte, è il tragico, ma anche l'autentico della vita stessa: ecco il messaggio essenziale che questi pensieri comunicano. Essi si muovono a buon diritto tra Friedrich Hölderlin e Simone Weil. Il primo, infatti, è il teologo tedesco, contemporaneo i Schelling ed Hegel (fu addirittura loro compagno di stanza allo Stift, ovvero al Collegio Teologico di Tubinga), che comprese pienamente la crisi della religione cristiana di fronte all' Illuminismo e la guardò onestamente in faccia, senza tentare, come i due amici, una conciliazione attraverso sistemi filosofico-teologici. Affidò invece alla poesia il vissuto di questa crisi, e , insieme, l'esperienza del divino che comunque si mostra all'uomo: “velocemente trascorre via, ma non invano”.
La seconda è la scrittrice francese del ventesimo secolo che, a partire da un'educazione agnostica, fu affascinata dalla religione cristiana e ne tentò, come ella stessa scrive, la “ripulitura filosofica”, ovvero cercò di renderla accettabile a una intelligenza onesta del nostro tempo. Due personalità sicuramente molto diverse, e non solo per i luoghi e i tempi in cui sono vissute, ma che hanno qualcosa di essenziale in comune: l'onestà, appunto, il rifiuto della menzogna, e perciò il ritorno alla grecità come “luogo” archetipico del tragico, ovvero dell'autenticità e, con essa, della percezione della straziante bellezza della vita umana.
L'onestà è anche la condizione prima del religioso, e non a caso essa si configura tanto in Hölderlin quanto nella Weil nel senso della assenza di Dio. Il poeta tedesco recita infatti:
“sta l'uomo innanzi a Dio, come egli deve,
solo, senza timore. Lo protegge
la sua semplicità. Non ha armi, né astuzia,
finché Dio lo soccorre con l'assenza”.
Solo, senza timore, senza armi né astuzia, difeso dalla sua simplicitas – la semplicità dello Specchio delle anime semplici di Margherita Porete, ovvero il “niente sapere” -, l'uomo viene infine soccorso da Dio, non con la sua presenza, che renderebbe falso ogni evento della vita, ma con la sua assenza, che lascia essere l'essere, che lascia intatta la bellezza del mondo. Questa assenza però, per chi la sa cogliere, è più forte, più reale, della presenza fisica delle cose: infatti Simone scrive:
“il contatto con le creature ci è dato dal senso della presenza; il contatto con Dio dal senso della assenza. In confronto a questa assenza, la presenza diviene più assente dell'assenza”.
L'andamento paradossale di questi pensieri, proprio anche di molte pagine di questo libro, non deve stupire, deve invece essere compresa. Ricordiamo infatti quello che scrive ancora la Weil, sulla scia dell'antico filosofo greco Eraclito:
“L'identità dei contrari subìta in modo incosciente è il male. L'identità compresa è il bene”.
Marco Vannini