Mistica, l’enigma dell’Altro

Sezione: 

Avvenire - Libri, 28 settembre 1996

di Bruno Forte

L’ultimo bel libro di Marco Vannini su Mistica e filosofia rivela ancora una volta la sua straordinaria competenza di storico e interprete della mistica. La lettura del volume, tuttavia, lascia perplessi. Anzi, non può non lasciare perplessi: in una mescolanza di citazioni e di giudizi fatti propri dall'autore, vi si afferma tra l'altro che la Sacra Scrittura va superata - «lasciata da parte come materiale per "asini" e "servi"» -, che la teologia è "idiozia", con particolare riferimento alla «profonda volgarità delle teologie della storia, pari solo alla loro stupidità e menzogna» che «il pensiero dell'Altro è il male, e il pensiero di Dio come altro il male per eccellenza» che la morale è "menzogna radicale", perché continua a distinguere «le cose a seconda di fini arbitrari, a dividerle in buone e cattive in corrispondenza alla loro utilità per questi fini» che la fede è vana, perché "credere" implica' ancora la distinzione fra il credente e Colui in cui si crede, che ebraismo e islamismo sono perciò pura idolatria, e tale è anche il cristianesimo quando ne ripeta l’impianto dualistico… I paradossi da citare sarebbero ancora molti, anche se quelli richiamati bastano da soli a giustificare la perplessità: in realtà, però, è questa perplessità che costituisce il fascino del libro e del tipo di mistica che esso ricostruisce. La ragione profonda dei paradossi sta nella tesi centrale cara al grande studioso della mistica che è Vannini: «Mieto annuncio è quello dell'unità del tutto, della non alterità di Dio». Dovunque il divino viene oggettivo ovvero ridotto ad altro rispetto al soggetto indagante, lì è anche catturato in maglie indiscrete, lì è perso l'accesso agli abissi dell'esperienza che sola ce ne fa partecipi. Ma questa assimilazione resta dialettica, perché il Dio cui il mistico cristiano fa riferimento è trinitario: «Solo la concezione trinitaria cristiana permette di pensare Dio come spirito, e, nello stesso tempo, unitas spiritus tra Dio e uomo, senza che ciò divenga panteismo». Solo in forza della dialettica trinitaria «si esce da un cristianesimo meramente dottrinale, esteriore e sociologico, e si penetra nella vita dello Spirito». E quanto ha intuito genialmente Hegel, che è perciò per Vannini il filosofo cristiano per eccellenza dei tempi moderni, anzi addirittura «l'apice della tradizione spirituale greco-cristiana in Occidente».

Per quanto rispetti questa tesi di fondo e ne riconosca la validità di ricostruzione storica, mi sia consentito dissentire teoricamente tanto da essa quanto dalle sue conseguenze "paradossali", sebbene esse siano presentate come logiche e inevitabili. E peraltro lo stesso Massimo Cacciari che chiude la Prefazione al libro con la domanda cruciale: «Ancora cristianesimo?». Non è solo una diversa tradizione mistica che qui fa resistenza, come lo stesso Cacciari osserva riferendosi specialmente alla mistica francescana e a quella delle grandi mistiche italiane (si pensi solo alla raccolta Scrittrici mistiche italiane, curata da Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi per la Marietti, uscita nel 1988, e alle splendide pagine di Pozzi colà contenute sull’alfabeto delle sante"), ma è la cosa stessa che fa problema. E proprio vero che l'evangelo è l'annuncio gioioso della fine di ogni alterità? O non sta proprio nell'Altro, e nel suo farsi prossimo a noi in Gesù Cristo e nel volto d'altri, il luogo dell'esperienza di Dio? È questa incontro o dissolvimento? E se è incontro - come l'urgenza della metànoia manifestamente esprime, nella tensione dei "due" che sono l'esodo umano e l'avvento divino – è accettabile sostenere che «scompare l'alterità di Dio, che diventa interno all'uomo, perché è superata l'alterità del soggetto rispetto a quella di Dio»? La questione non è di mera ricostruzione storica, dove la competenza di Vannini è fuori discussione riguardo agli Autori trattati, ma di vera pertinenza teoretica e - per il credente - dogmatica e teologica.
Per meglio esprimere il disagio accosto, il libro di Vannini un testo in apparenza del tutto estraneo ad esso: il recente, fine volumetto di Arturo Paoli intitolato Il sacerdote e la donna. Si tratta di una rilettura che non esiterei a definire mistica dell'esperienza della relazione con il femminile da parte di un prete, impegnato sul fronte della giustizia sociale a partire da una esigente dimensione contemplativa. In una società erotizzata come la nostra, è opera di non comune finezza quella di narrare una relazione uomo-donna rigorosamente scevra dai consumismi sessuali di moda: ma è non meno bello vedere come questa relazione sia il luogo in cui si rivela con chiarezza all'Autore il valore insostituibile dell'Alterità per la comprensione e il vissuto della carità evangelica. Fortemente nutrito dalla meditazione filosofica di Emmanuel Lévinas, Arturo Paoli rifugge dalla «dissertazione su Dio», ma trova assolutamente salutare la «discussione con Dio», quel rapporto dialettico, cioè, in cui l'Altro è rispettato ed accolto in tutta la sua alterità, così come essa si affaccia nello sfolgorio del volto d'altri. E che questa sia esperienza densa di mistica lo mostra non solo il genere di «confessione», resa all'epilogo della vita alla presenza dell'Eterno e in dialogo orante con Lui, ma anche la capacità i discernere gli appelli e gli incontri con Dio nelle mediazioni storiche degli incontri con gli altri, e soprattutto in quella relazione uomo-donna che inquieta proprio perché richiede a ciascuno di uscire da sé in un esodo senza ritorno verso l'Altro, di cui il volto altrui è traccia. Struggenti confessioni come questa sono la trasparenza di un'esperienza i grande forza mistica: «Ti ho lasciata nel dolore e nella delusione, ma ti assicuro che non ti ho lasciata; sono stato fedele non al tuo destino, ma al tuo messaggio, non a quello che volevi ma a quello che l'Altro voleva che tu fossi e che tu annunciassi a me, e ancora al tempo che Egli ti ha assegnato». Ed è in questo spessore di esperienza contemplativa che le tesi di Paoli risultano singolarmente alternative alle conseguenze tratte da Vannini dalla sua idea della mistica dell'assoluta non-alterità: «Qualunque interpretazione del cristianesimo che escluda la responsabilità del mondo e la solidarietà nel peccato, è falsa» (78). Quasi a dire che senza l'alterità non si dà mistica, né salvezza, né grazia: e che la mistica educata alla scuola della Croce in cui il volto dell'Altro si affaccia come quello dell'Uomo dei dolori (si pensi solo a San Francesco!) non è meno tale di quella del trionfo del nulla in cui — come in Hegel — il dolore e il negativo del mondo sono risolti in semplici momenti necessari (e superati) del processo eterno della vita. Più che di mistica si dovrà allora parlare di «mistiche», anche se non si potrà rinunciare a chiedersi quale di esse sia la più vicina e e fedele allo specifico della rivelazione di Dio in Cristo e in Lui crocefisso...