Luce mistica dei moderni
Sergio Givone, in: <Il Manifesto - Alias>, 11 ottobre 2003.
Lungo l’asse Cartesio-Spirtoza-Hegel (che secondo vulgata «realizza» la secolarizzazione del Moderno), Vannini identifica un resistente filo mistico: mistica intesa, fuori di ogni irrazionalismo, come logos che indaga la radice comune dell’anima e di Dio. " Conosci te stesso e conoscerai te stesso e Dio», recitava il precetto delfico, e a questo ammonimento, secondo Marco Vannini - autore de La morte dell'anima (Le Lettere, pp. 330, E 20,00) -, la mistica cristiana è rimasta fedele.
Non solo la mistica, però. Anche la Filosofia: da Parmenide a Plotino, da Cartesio a Spinoza, fino a Hegel.
Ma poi qualcosa è accaduto. La conoscenza di sé si è offuscata, si è l'atta non solo povera e vuota ma puramente strumentale. Ormai incapace di conoscere se stesso, l'uomo non può che perdersi, perdendo nel contempo Dio.
La morte di Dio non è che l'altro aspetto della morte dell'anima.
Viceversa, prosegue Vannini, il «conosci te stesso» implica Dio perché rinvia alla parte essenziale di sé, al fondo che non muta, all'eterno che è nell'uomo. Come insegna la mistíca (e la filosofia, anche se la filosofia contemporanea sembra averlo dimenticato), è dato a ciascuno di attingere nella propria anima la quieta e luminosa presenza dell'essere.
Liberato dalla dipendenza da questo e da quello, è come se l'individuo vivesse non più la propria vita bensì la vita di Dio.
L'individuo rinasce in Dio: anzi, direbbe il grande Meister Eckhart, è Dio che rinasce in lui. Così profondamente legati sono Dio e l'anima che «quando scompare Dio scompare anche l'anima».
Chiaro che l'anima di cui qui si parla è più che l'anima. Infatti è la vita divina nell'uomo. Dunque, propriamente, è lo spirito. Mentre quella parte dell'anima che è abitata dall'inessenziale, ossia da bisogni speranze desideri, insomma dalla relazione con il mondo piutto sto che con Dio, dovrebbe essere chiamata (come di fatto lo è) non tanto anima quanto psiche: a indicare una dimensìone dell'anima puramente superficiale.
E’ ciò di cui si occupa la psicologia. Che si presenta oggi come una scienza. Ma, come del resto gli stessi psicologi e psichiatri più consapevoli riconoscono, scienza non è. Né potrebbe esserlo, avendo perduto il suo fondamento, ossia «il fondo dell'anima», il divino nell'uomo, che è la sola cosa certa e vera, perché è la sola cosa immutabile. Tolta la quale, il resto è inquietudine penosa e vana speranza di guarirne. Perciò non deve stupire che la psicologia, scrive Vannini, «si sia da un lato frammentata in mille pezzi, inseguendo le mille possibilità di rapporti in cui l'uomo e inserito, e, dall'altro e di conseguenza, pensi la salute dell'anima come equilibrio in tali rapporti: una concezione tutta interna al sociale, alla situazione, da cui dipende e con cui naufraga». Lo aveva perfettamente compreso Wittgenstein, il quale vide nella psicoanalisi di Freud nient'altro che una nuova forma di mitologia e per giunta una mitologia acritica. Psicologia non già come «cura» ma semmai come «afflizione delle anime».
Non così quella più alta psicologia che è la filosofia dello spirito. Vale a dire la filosofia che in epoca moderna si è sviluppata principalmente lungo l'asse Cartesio-Spinoza-Hegel. E che è l'erede legittima della mistica: non certo la mistica in quanto forma irrazionale di pensiero, ma al contrario la mistica in quanto logos che conosce la radice comune dell'anima e di Dio.
Cartesio, appunto, cui si è voluto imputare un radicale dualismo fra spirito e materia che aprirebbe la strada a un'interpretazione meccanicistica della realtà, laddove Cartesio, in perfetta sintonia con la mistica, vede nell'anima il principio e il fondamento a partire dal quale soltanto la realtà si rivela all'uomo come realtà spirituale. A quale livello di profondità Cartesio sia giunto nella sua conoscenza dell'anima, basterebbe a dimostrarlo il suo mirabile trattato sulle passioni. Ma qui si deve anzitutto sottolineare che il dubbio metodico riprende un presupposto della mistica: come non vedere infatti nel tipico procedimento vòlto a rimuovere tutte le opinioni inconsistenti il «distacco» di cui parlava Eckhart, per il quale «essere vuoto di ogni creatura» apriva al possesso assolutamente certo della verità?
Quanto a Spinoza, l'accusa era ed è di panteismo se non di ateismo. Ma se è vero che Spinoza rifiuta qualsiasi concezione antropotmorfica della divinità, però identifica Dio con la sostanza infinita ed eterna che è causa di se stessa: e cos'altro è Dio? Vale per Spinoza quel che vale per Cartesio. Cìoè l'ascendenza neoplatonica e in particolare eckhartiana del loro pensiero.
Aveva affermato Eckhart: «Il disegno ben definito di Dio è che l’anima perda Dio. In effetti finché l'anima ha ancora un Dio, conosce un Dio, ha la nozione di un Dio, è ancora lontana da Dio». Bisogna che l'anima neghi Dio come ciò che è altro e vi si identifichi come con la propria sostanza più intima.
Del resto, l'accusa di panteismo e di ateismo è la stessa che sarà rivolta anche a Hegel. Ma Hegel non fa che portare a compimento il contenuto speculativo della mistica. E cioè l'idea che la verità è la vita dello spirito - spirito che si aliena nel mondo, fa esperienza del conflitto e della morte, ma per ritrovarsi e anzi per risorgere dalla più completa devastazione. «Così dunque lo spirito è spirito che sa se stesso... », dice Hegel, e con ciò traduce la tesi che è alla base della mistica per cui l'anima «sa» che il suo fondamento e il suo principio non sono se non Dio.
Come, osserva Vannini, qui Hegel allude al passo giovanneo cui tanto spesso fa riferimento la mistica tedesca: «E’ bene per voi che io vada, perché se non me ne vado non può giungere a voi lo spirito». La vicenda dell'anima, che deve morire perché solo così può diventare cosciente della propria origine divina, è la stessa che nella mistica e in Hegel. Autocoscienza, dice Hegel. Sapere assoluto. In una evidente linea di continuità con la mistica.
Semmai ci sarebbe da chiedersi che tipo di sapere è questo. La risposta di Hegel è perentoria: «Dio è raggiungibile soltanto nel puro sapere speculativo... e questo sapere speculativo è il sapere della religione rivelata».
Dunque, secondo Hegel filosofia e rivelazione non solo non si contraddicono, non solo non si oppongono, ma coincidono Perfettamente. Di nuovo: che sapere è questo? Che cosa significa che filosofia e rivelazione sono tutt'uno? Certamente non che la rivelazione sia filosoficamente deducibile: proprio su questo punto Hegel polemizza con la pretesa di applicare modelli matematici al sapere filosofico. Ma non significa neppure che il sapere filosofico sia da ridurre a ìntuizione o peggio ancora a sentimento: sappiamo quali considerazioni sprezzanti Hegel abbia riservato in proposito a Schelling e ai romantici. E allora? Il problema resta.
Una soluzione, forse la sola, potrebbe venire dal riconoscimento, risoluto e inequivoco, che siamo su un terreno dove tutto è simbolo, e infatti tutto è simbolo quando il linguaggio tenta di dire, ed effettivamente dice, i contenuti della religione, i misteri della fede, le verità rivelte. Sapere simbolico è quel sapere che tiene insieme filosofia e rivelazione perché è sapere che dice lo stesso e lo dice in modo sempre diverso, com'è proprio dei simbolo. Dovrebbe far riflettere il fatto che modalità di pensiero tanto diverse (Plotino, Cartesio, Spinoza, Hegel... ) abbiano prodotto straordinarie convergenze speculative, ma anche il fatto che la mistica più profonda si sia espressa attraverso la poesia più sublime (San Giovanni della Croce, Angelo Silesio).
Va detto però che una soluzione di questo tipo è da Vannini esclusa.
Il sapere simbolico non gli sembra in grado di dire l'essenziale, e cioè l'Uno, perché è sapere dualistico, sapere che non «sa» mai secondo verità bensì sempre e soltanto nella forma dell'allusione all'altro e al differente. Ma siamo sicuri che le cose stiano così? Non è invece il simbolo, per definizione, ciò che nello stesso tempo separa e unisce?
A Marco Vannini, cui siamo debitori d’un lavoro filosofico estremamente prezioso, rivolgiamo questa domanda.