Eckhart. L'eretico che parlava con Dio

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Giorgio Montefoschi, in: <Corriere della Sera>, 21 giugno 1999, p. 27

Le riflessioni del teologo tedesco: una delle figure più controverse dello spiritualismo medievale. Ora viene riscoperto, mentre l'editoria punta sui mistici

Della sua vita si è sempre saputo molto poco. Nacque, attorno al 1260, da una famiglia della piccola nobiltà sassone ed entrò giovanissimo nel convento dei domenicani di Erfurt. Studiò a Colonia e a Parigi. Visse tra Parigi, la Sassonia e Strasburgo, ricoprendo incarichi importanti: vicario generale della Teutonia, magister. Nel gennaio del 1327 si appellò al giudizio del Papa, che allora risiedeva ad Avignone. Fu ascoltato da una commissione, espose il suo pensiero e rigettò le accuse di eresia. Morì attorno al 1328. Lasciò svariate opere, tra le più alte del misticismo medievale, sia in tedesco sia in latino. Queste, però, conobbero un lungo periodo d'oscurità: fin quando non furono riscoperte nel secolo scorso. Anche ai suoi tempi fu contestato fortemente. Alcuni dissero, addirittura, che era un falso profeta. Altri, come il suo discepolo Taulero, affermarono che il suo problema era il seguente: egli parlava dal punto di vista dell' eternità, ma spesso veniva inteso dal punto di vista del tempo. "Un destino" commenta Marco Vannini nell'introduzione a Dell'uomo nobile, "che non è molto cambiato neppure ai nostri giorni". La conoscenza della vita eterna nella vita quotidiana, sostiene Meister Eckhart nel primo dei quattro trattati che lo compongono, può venirci dall' annuncio che Dio fa all'uomo attraverso una illuminazione o un angelo (l' angelo che annunciò il prodigio a Maria); oppure, può essere prodotta dalla confidenza che nasce dall' amore per Dio. In che modo l' individuo mortale possa istituire questo rapporto con Dio, preannuncio della beatitudine sottratta al tempo, meglio che altrove Eckhart lo spiega nel trattato intitolato Del distacco. Molti, dice, pensano di dover compiere penitenze esteriori, digiuni, opere di misericordia per arrivare a Dio. Non c' è nulla di più falso. La sola, vera penitenza consiste nell' abbandonare completamente, in noi stessi e nel mondo, tutto ciò che è altro da Dio. La virtù più alta, attraverso la quale l' uomo nobile può unirsi in un legame indissolubile a Dio, e diventare maggiormente simile a lui, nasce dall' abbandono del mondo: è il distacco puro. Lo disse il Signore a Marta: "Marta, chi vuol essere puro e in pace, deve possedere una cosa: il distacco". In che modo, si domanda Meister Eckhart, è possibile raggiungere il distacco? Il perfetto distacco non può esistere senza la perfetta umiltà ; giacché la perfetta umiltà non è altro che l'annullamento di sé. Dunque, il perfetto distacco nell'uomo mortale che già per penitenza ha abbandonato il mondo, consiste nella scomparsa definitiva del mondo: nel vuoto. Quando il distacco è vero, infatti, lo spirito è insensibile alle vicissitudini della gioia e del dolore, del disprezzo e del danno, quanto una montagna di piombo è insensibile a un vento leggero. Perché il distacco non ha oggetto. Più il puro nulla. Ma Dio entra nel nulla. Esattamente come un liquido che cade in un recipiente vuoto. Come la luce che appare nel buio. Come il segno accolto nella tavoletta di cera immacolata. Allora, diventano inutili persino le preghiere. Perché, chi prega, desidera ottenere qualcosa da Dio, o che Dio gli tolga qualcosa. Invece, chi ha Dio dentro di sè è congiunto a Dio, è distaccato da tutto, in primo luogo; in secondo luogo, se è con Dio, è Dio: dunque, non può chiedere a un altro. Ha qualcosa di sconvolgente e terribile, questo vuoto: più terribile delle tenebre di Juan de la Cruz, di Santa Teresa. Per sottrargli ancora sembianza e confini, il predicatore tedesco lo vede proiettato dall' uomo in Dio; e nel suo Figlio diletto. Il distacco dell' uomo, dice, è una pallida imitazione del distacco di Dio: quello è il distacco assoluto. Dio non si commuove o turba neppure per un'opera buona, una preghiera; neppure per il martirio del Figlio. Siamo noi che contiamo il tempo. Egli sa tutto, vede tutto, poiché tutto in lui è compresente, anche la sofferenza, in un disegno eterno. Quanto al Figlio, due sono le considerazioni sul distacco. La prima nasce da una frase famosa di Gesù: "Bisogna che io vi lasci, perché se non vi lascio non verrà in voi lo Spirito Santo". Eckhart commenta così: è come se Gesù dicesse che abbiamo provato troppa gioia nella sua presenza. Dunque, per il vero distacco, dobbiamo separarci perfino da Gesù. La seconda nasce dalla croce. Quando Cristo disse: "L'anima mia è triste fino alla morte". Dov'era, allora, si domanda Eckhart, il suo distacco? Gesù - risponde, riempiendoci di consolazione, finalmente - era uomo. E, come ogni uomo, era uomo interiore ed esteriore al tempo stesso. Quelle parole venivano dall'uomo esteriore. Ma l'uomo interiore non era inchiodato: era intoccabile, imperturbabile. Immobile come il cardine di una porta, mentre la porta gira. Altre parole di consolazione le troviamo nei trattati III e IV. Nel Libro della consolazione ci viene ricordato che dobbiamo amare le nostre sofferenze, perché vengono da Dio e ci rendono simili a Gesù . E che Gesù non ci abbandonerà. Infatti, disse al Padre: "Padre, io voglio che colui che mi segue sia là dove sono io". Nel trattato Dell'uomo nobile abbiamo, colta da Origene, una immagine stupefacente. Egli pensava che il seme di Dio, l'immagine di Dio, suo Figlio, fosse, nel fondo dell'anima di ciascuno di noi, come una fonte. Se qualcuno vi getta sopra della terra, la occulta e la nasconde. Eppure, essa resta viva in sè, rimuove la terra, ed ecco, riappare e la scorgiamo di nuovo.